Come non condividere quanto scrisse Aldo Grasso sul Corriere della Sera del 21.10.23: “Da quando tv e social si sono impadroniti delle nostre vite, siamo tutti fuorionda, microfonati, mossi da un’ansia di verità abusive, specie se sono gravi e grevi già prima di essere condivise. È come se la realtà si fosse trasformata in un reality, in un gioco di continua esposizione in cui tutti, ma proprio tutti, siamo consenzienti, esposti in una sorta di iperrealismo rappresentativo. Il fuorionda è diventato un programma fra altri, un fuorigioco che il Var dello Spettatore Collettivo giudica regolare”. Così avviene intrusivamente anche per la scuola, la politica e i VIP, cioè per tutti e tutto, senza limiti di censo o altra natura, ovunque.
La recente inchiesta sull’attività di dossieraggio, da parte della Guardia di Finanza e magistratura, su politici e VIP, fa gridare allo scandalo gli interessati: “Siamo di fronte a un vero e proprio attacco alla democrazia e, se così fosse, è una vergogna degna dell’URSS o di uno stato sudamericano”. Una circostanza decisamente imbarazzante che ci sentiamo, anche noi di stigmatizzare. Tuttavia, riteniamo doveroso dirimere più compiutamente le perplessità sull’uso/abuso delle audiovideointercettazioni (AVI) nelle scuole per la “caccia alle streghe”, cioè alle maestre credute violente. In questo campo, poco coerentemente, nessun politico grida allo scandalo per l’uso indiscriminato delle AVI a scuola, al contrario si propone di legiferare a favore dell’installazione di videocamere nelle aule pur essendo finora vietato dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori per ovvie ragioni di privacy.
Per quale motivo le AVI fanno paura a tutti? Semplicemente perché la manipolazione delle immagini si presta a dimostrare tutto e il suo contrario. Le AVI non sono contingentate, sono cioè illimitate, consentendo la cosiddetta pesca a strascico, perché possono essere prolungate ad libitum a discrezione del magistrato di turno. Consentono inoltre l’estrapolazione di singoli episodi dopo una selezione avversa degli stessi. Sempre a opera degli inquirenti, che certamente non sono degli addetti-ai-lavori in ambito scolastico ed educativo, i filmati vengono trascritti, interpretati e drammatizzati.
Finora si sono avuti procedimenti penali che sono ricorsi a 100-400 ore di AVI sul lavoro, mentre le contestazioni sono avvenute mediamente per lo 0.1% del registrato. Le AVI non contestate corrispondono conseguentemente al 99,9% ed è pertanto arduo, se non impossibile, stabilire quel concetto di “abitualità” del reato necessario a integrare i maltrattamenti (art. 572 del c.p.). Inutile dire che ciascun giudice utilizza in merito un proprio metro discrezionale per ritenere soddisfatto il suddetto principio di abitualità che finisce col perdere, in toto, oggettività, trasformandosi in mero arbitrio.
L’equivoco maggiore – e un politico lo sa – viene dal “taglia e cuci” che si può confezionare avendo a disposizione dei lungometraggi di cui ciascuno di noi è primo e inconsapevole attore. Si prenda a esempio la vicenda dell’ormai ex-compagno dell’attuale premier: affossato da un semplice fuorionda registrato a sua insaputa. Estrapolazione, selezione, decontestualizzazione sono i principali strumenti di manipolazione che consentono di plasmare una verità artificiale tratta da una vita la cui privacy è stata “violata” dal buco della serratura. Sottoponendo al giudice brevissimi spezzoni di filmato, tratti da un interminabile film di alcune centinaia di ore, riproduciamo frammenti di realtà che finiranno col divenire esclusivamente un artificio, ovvero una “verità fatta a brandelli”.
Sul ricorso alle intercettazioni a scuola vi sono ancora molte verità da dire. Dei circa 500 procedimenti penali, conclusi o in corso, non vi è un solo caso di lesioni gravi nei confronti degli alunni, ma le ipotesi di reato si basano quasi esclusivamente sulla cosiddetta “violenza assistita” con ciò che questo comporta giuridicamente parlando.
Ma questo è solo l’inizio. La registrazione viene prima sbobinata, quindi interpretata secondo il sentire/sapere dell’inquirente di turno che – come abbiamo detto – nulla sa di educazione e pedagogia, poi commentata, infine trascritta. La maestra che redarguisce un alunno o lo strattona per richiamarlo all’ordine, ovvero lo afferra vigorosamente per cambiarlo di banco, diviene per incanto la strega che percuote il fanciullo poiché la legge definisce percossa “ogni manomissione violenta dell’altrui persona”. Ma anche tra le percosse (le sberle sono ricomprese nella categoria) impariamo che ve ne sono alcune “giustificabili”, ma non certamente a scuola che pur comprende tanti stili educativi quanti sono i bimbi presenti.
È di questi giorni l’assoluzione di una donna di 42 anni che diede qualche schiaffo alla figlia di 12 anni perché stava mandando sue foto osé a un ragazzo di 19 anni. Il Tribunale ha escluso la punibilità della madre sostenendo che la signora ha agito nell’esercizio di un diritto o nell’adempimento di un dovere. I giudici della prima sezione collegiale hanno ritenuto — come scritto nelle motivazioni – che «una volta sorpresa la figlia, la signora ha indubbiamente ritenuto di esercitare quel potere/dovere di educazione e correzione dei figli che deve essere riconosciuto in capo a ciascun genitore».
Riprendendo il tema della competenza degli inquirenti in materia educativa, mi limito a riportare quanto già ebbi modo di scrivere: “Gli inquirenti (per lo più carabinieri, ma anche poliziotti, finanzieri, vigili urbani e polizia postale) non possiedono la necessaria preparazione educativo-pedagogica, né conoscono la differenza e gli obblighi che passano tra l’ambiente “familiare” e quello “parafamiliare”. Più che legittimo pertanto chiedersi se l’analisi dell’attività professionale “specializzata” di coloro che insegnano, educano, scolarizzano, istruiscono, integrano, sostengono, interagiscono, comunicano, includono, assistono bambini piccoli, possa essere serenamente affidata a dei non-addetti-ai-lavori”. Mi sento solo di poter aggiungere che il suddetto sistema educativo è in profonda trasformazione e spesso criptico per gli stessi addetti-ai-lavori: dall’educare/guidare/crescere siamo passati all’assecondare/integrare/omologare i ragazzi. Corretto? Non lo sappiamo, esattamente come non siamo capaci di redigere la lista bianca dei metodi correttivi, limitandoci alla sola lista nera degli stessi.
Ma le perplessità non finiscono qui. L’intervento dell’Autorità Giudiziaria che, con le intercettazioni nella scuola a carico delle maestre, cortocircuita l’intervento del preside, sancisce di fatto il fallimento di un sistema di vigilanza e controllo che è operato dal dirigente scolastico stesso con i suoi collaboratori anche attraverso ispezioni ministeriali. L’esorbitante costo di uomini e tecnologie per effettuare le AVI grava integralmente sull’erario. Si bruciano inutilmente denaro pubblico e risorse umane che potrebbero essere impiegate altrimenti. Si consideri a titolo di esempio il caso di Rivoli occorso poche settimane fa: 1.200 ore di intercettazioni, due gradi di processo, spese per giudici, avvocati, cancellieri, aule di tribunale etc, terminato, tra l’altro, con un’assoluzione.
Chi paga le migliaia di euro per questo spreco? Noi cittadini. E se moltiplichiamo i costi per i circa 500 processi ancora oggi pendenti sugli insegnanti a sostenere le spese siamo sempre noi. Non è meglio, più economico e tempestivo riaffidare il controllo istituzionale alla scuola? Va anche detto che in nessun caso i bambini hanno riportato lesioni fisiche , forse perché trattasi di ambiente pubblico e non privato come il domicilio dove hanno luogo i più efferati delitti. Non resta che restituire ai dirigenti scolastici le loro responsabilità, anziché cortocircuitarli, quindi confidare nell’assoluta sicurezza dell’ambiente scolastico soprattutto rispetto a quello domestico, infine limitare se non abolire, l’intervento dell’Autorità Giudiziaria nella scuola. Interrompendo questa insensata caccia alle streghe, saranno liberate molte risorse umane, così che le FFOO potranno dedicarsi ad altre questioni veramente urgenti come la prevenzione dei femminicidi trascurata o sottovalutata (es. Giulia Cecchettin, Vanessa Ballan, Elena Scagni, per citarne alcuni più recenti). Urge pertanto la ratifica di un protocollo d’intesa (da tempo funzionante in UK) tra Ministeri dell’Istruzione e Giustizia che sancisca nelle competenze il principio dell’unicuique suum.
E che la scuola sia capace di fare da sola, lo dimostra il recentissimo caso della maestra sarda di San Vero Milis (OR) Marisa Francescangeli. Senza entrare nel merito dei fatti (la maestra presenterà le sue controdeduzioni alle contestazioni) leggiamo che è accusata di aver schiaffeggiato una bambina di dieci anni ed è, per questo, stata sospesa dopo alcune ispezioni ministeriali per tre mesi col riconoscimento del solo assegno alimentare.
La commissione disciplinare dell’Ufficio Scolastico Regionale che ha irrogato la sanzione, ha prontamente ritenuto che «i fatti sono di sicura rilevanza disciplinare in quanto costituiti da comportamenti non conformi alle responsabilità, ai doveri e alla correttezza inerenti alla funzione docente». Non sono dunque servite intercettazioni, schiere di inquirenti, procedimento penale et similia. A confortare l’interpretazione appena data ecco le parole di un magistrato di Quartu che analizzando un caso analogo a quello sardo (ma in fondo si somigliano un po’ tutti) scrisse: “la condotta della maestra non integra la soglia del penalmente rilevante, ma esaurisce eventualmente la propria censurabilità in ambito disciplinare”.
La scuola così come l’Autorità Giudiziaria, si dedichino a ciò che loro compete. Il daffare certamente non manca. Le AVI sono a doppio taglio e, se non regolamentate, sono di danno più che di aiuto.