Mentre ritornano tutti i riti (e le parole) del vecchio proporzionale. O quasi
di S.D.C.
Si respira a pieni polmoni aria di proporzionale e di Prima Repubblica. Per esempio, Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) si dice disposto ad una “fiducia di scopo” al governo Gentiloni, quando e se mai sarà, sullo ius soli. E più di un esponente di Mdp (gli scissionisti Pd), un piede nel Governo e un altro fuori, se ne esce con il termine “fiducia tecnica” per votare, a seconda dei casi, a favore o contro. Sotto il cielo della politica, come direbbe il buon Enrico Mentana, se ne vedono ormai di tutti i colori in questa coda, assai “incasinata”, di fine legislatura.
Ne sa qualcosa il buon Paolo Gentiloni il cui esecutivo è ormai ridotto a un quasi monocolore (come ai bei tempi, anche qui, di quei governi balneari cui era assai affezionato Amintore Fanfani). Angelino Alfano infatti ha rotto con il Pd di Matteo Renzi già dallo scontro sulla legge elettorale tedesca, poi miseramente fallita. E puntella l’attuale inquilino di Palazzo Chigi soltanto alla bisogna onde evitare soluzioni traumatiche che, almeno parole, nessuno vuole più. Tra “pezzi” della sua squadra che lasciano, guardando alle sirene del rinascente centro-destra berlusconiano e tentativi di ritagliarsi una posizione autonoma magari in grado, quando le urne saranno chiuse, di fare la differenza verso l’uno o l’altro schieramento vittorioso ma, come sempre più probabile, senza maggioranza assoluta.
Si diceva di Gentiloni. La sua agenda di lavoro è sempre più zeppa di cancellazioni e rinvii. Ultima in ordine di tempo, pur nel suo piccolo, l’annunciata riforma del trasporto locale con la “ricetta” per far convivere Uber e taxi bianchi. Il suo “quasi” monocolore viaggia come per abbrivio. E solo perché nessuno si alza e invoca, ogni tanto, la verifica esatta dei numeri al Senato. Che, altrimenti, la strada obbligata sarebbe quella di una visita al Colle. Di contro, se di qui all’auspicata (per tutti!) chiusura dei lavori parlamentari per la pausa estiva, salvo sorprese, la strada dovrebbe essere in discesa, a settembre invece cominciano impegni da far tremare i polsi. Quale maggioranza voterà la nuova, delicatissima legge di stabilità? Bell’interrogativo, che in queste ore e non solo, si sta ponendo non poco Sergio Mattarella, preoccupato per la piega possibile degli eventi a pochi mesi dallo scioglimento delle Camere. Hai voglia a dire, come fanno in tandem Palazzo Chigi-Quirinale, che la ripresina in atto avrebbe bisogno di qualche mese almeno di stabilità. Hai voglia a sottolineare come l’altra grave emergenza, l’immigrazione, richiederebbe un Governo con pieni poteri per controbattere le riottose, quasi irritanti cancellerie europee. Non è facile prevedere colpi d’ala di qui allo sciogliete le righe.
Del resto, a ben vedere, il cerchio non poteva non chiudersi. Questa legislatura era cominciata con una maggioranza risicata e traballante, segnatamente a Palazzo Madama, per effetto di un Pd che “aveva vinto senza vincere”. Siamo sinceri: nessuno avrebbe scommesso un euro che si andasse avanti per tanto tempo, con alle viste ormai la scadenza naturale. Ora però la resa dei conti è vicina. Le truppe si dividono e piano piano si posizionano per prendere campo per la battaglia decisiva. Il dubbio è che tutto questo gran daffare non porterà, poi, a nulla. Ma accadeva così anche tanti anni fa. Poi tutto tornava nelle mani del Capo dello Stato e di una figura di premier in grado di aggregare servendosi di una parola che, in queste ore e per alcuni mesi a venire, sarebbe improponibile: mediazione. Nacquero così le “convergenze parallele” del compromesso storico. Che nostalgia della normalità – così moderna – di quel vecchio proporzionale!