È legittimo il licenziamento di un dipendente che utilizza i social durante l’orario di lavoro”, dice la Cassazione. Non rispettati gli obblighi di diligenza e di buona fede del lavoratore. Ennesimo “licenziamento da social” a Brescia. Casi analoghi anche a Cagliari, Torino, Perugia, Bergamo ed Ivrea
di Stefano Bruni
Utilizzare troppo i social fa male. Lo ha provato sulla propria pelle una segretaria di uno studio medico della Provincia di Brescia che ha visto confermare dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3133 dell’1 febbraio 2018, il licenziamento disciplinare comunicatole dal proprio (ex) datore di lavoro.
La vicenda
Il datore di lavoro della segretaria in questione, acquisendo alcuni screenshot dal pc aziendale, aveva scoperto che la sua dipendente, durante l’orario di lavoro, era solita concedersi un po’ di “svago” navigando su vari siti di noti social network. In particolare, il datore di lavoro aveva individuato, in un arco temporale di 18 mesi, circa 6.000 accessi a questi siti, contandone ben 4.500 circa solo su Facebook. Le durate degli accessi, poi, erano piuttosto prolungate e così il datore di lavoro ha provveduto a licenziare la propria dipendente.
Ma questo licenziamento non è andato giù alla lavoratrice che ha deciso di fare ricorso ritenendo il licenziamento ritorsivo o discriminatorio, in quanto avvenuto dopo la richiesta di fruizione dei permessi ex lege n. 104/1992, e considerando altresì violate dal datore di lavoro le disposizioni sulla privacy in occasione del controllo effettuato sul PC aziendale.
La sentenza della Cassazione
Dopo varie udienze, la parola finale è spettata alla Corte di Cassazione che ha anzitutto chiarito che nessuna violazione della privacy era stata commessa a danno della lavoratrice da parte del datore di lavoro in quanto le informazioni raccolte non avevano toccato la sfera personale della segretaria. Infatti, i dati portati in giudizio dal datore di lavoro si riferivano solo ed esclusivamente al numero, cioè alla quantità di accessi, e non alla loro “qualità” ovvero ai loro contenuti.
Quanto alla “identità” della persona che aveva effettuato i vari accessi, la Cassazione ha spiegato che prevedendo l’accesso al profilo Facebook di ciascun utente la necessità di inserire un username e una password, non potevano esserci dubbi della legittima proprietaria dell’account e, di conseguenza, degli accessi eseguiti.
Dunque, confermando la sentenza di secondo grado della Corte d’Appello di Brescia, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento, poiché nel comportamento della lavoratrice è stato rilevato un “modus operandi” in contrasto con l’etica comune, ovvero in antitesi agli obblighi di diligenza e di buona fede cui è chiamata ogni soggetto nello svolgimento della propria prestazione lavorativa.
I precedenti
Evidentemente, però, nessuno fa tesoro delle esperienze passate.
In passato ci sono già state numerose sentenze che hanno affermato il principio che è legittimo il licenziamento di un dipendente che utilizza i social durante l’orario di lavoro. In alcuni casi, addirittura, è bastato pubblicare determinate foto, post e video che in quale modo creano problemi all’azienda per ritrovarsi senza lavoro.
È accaduto a Cagliari nel 2014, a Torino nel 2015, alla Nestlè di Perugia.
E ancora, il Tribunale di Bergamo ha ritenuto, nel dicembre 2015, che “integra gli estremi della giusta causa di licenziamento il fatto del dipendente che ha “postato” sul proprio profilo Facebook una foto nella quale egli è ritratto impugnando un arma”, mentre quello di Ivrea, sempre nel 2015, ha considerato “giustificato il licenziamento intimato per giusta causa al lavoratore che abbia postato su facebook frasi offensive coinvolgenti i colleghi e il datore di lavoro non integrando nel caso di specie reazione legittima ad una provocazione posta in essere dal datore di lavoro o dai colleghi “.
Insomma, attenzione ad essere troppo “social”, si rischia il posto di lavoro…….