1948, 1994, 2023. C’è un filo invisibile che lega le tre elezioni politiche più decisive della nostra storia, quelle che hanno rappresentato una cesura netta con la fase storica precedente e che, con un effetto cinematografico e meta cronologico da “sliding doors”, avrebbero potuto indirizzare in una direzione completamente diversa il corso della storia nazionale.
Nel secondo dopoguerra, in seguito alle lacerazioni devastanti della guerra civile che si era protratta dal 1943 al 1947, nonostante l’amnistia da poco approvata, si arrivò inevitabilmente all’uscita del PCI dal governo di unità nazionale per adempiere alla divisione del mondo in due blocchi decisa a Yalta e per garantire l’effettività degli aiuti del Piano Marshall, di cui De Gasperi aveva discusso a Washington con la presidenza Truman.
Era chiaro a tutti gli osservatori internazionali e all’opinione pubblica italiana che l’esito delle prime elezioni libere dal 1924 avrebbe segnato la permanenza dell’Italia nel consesso delle nazioni democratiche occidentali o il suo scivolamento verso il sistema totalitario comunista sovietico, con il rischio di scatenare un nuovo conflitto interno con inevitabili coinvolgimenti diretti e indiretti delle due superpotenze mondiali e di quelle dell’area mediterranea.
La vittoria netta della Democrazia Cristiana fu decisiva per porre le basi del boom economico della seconda metà degli anni ’50 e per l’ingresso nella Nato e nella Cee. Tuttavia, la presenza del più organizzato partito comunista del mondo occidentale, finanziato dall’Urss e che non aveva reciso i legami con l’estremismo dei partigiani rossi poi riversatosi nell’azione terroristica delle Brigate Rosse, condizionò costantemente la politica interna ed estera della nazione, che sfociò nel consociativismo e nel rafforzamento della linea del filoarabismo mediterraneo.
Il “fattore K” rese per un quarantennio il nostro Paese la frontiera decisiva della Guerra Fredda, teatro di continue trame di spionaggio tra servizi segreti di Est e Ovest, che produssero e alimentarono tra il 1969 e il 1980 il terrorismo rosso e la strategia della tensione, con commistioni inconfessabili tra esponenti del Kgb, terroristi rossi e MI6 da un lato e Gladio, Cia, P2 e criminalità organizzata dall’altro.
Nel 1994, dopo le macerie politico-giudiziarie di Tangentopoli, si svolsero le prime elezioni con il sistema maggioritario, in cui si contrapposero il cartello dei Progressisti, guidato dal Pds di Occhetto, i centristi del Ppi di Martinazzoli e il Polo delle Libertà del buon governo, ideato da Silvio Berlusconi nel giro di pochi mesi.
L’elettorato moderato si era trovato improvvisamente senza rappresentanza politica per la distruzione chirurgica del pentapartito, anzi, del Psi e della corrente di destra del Dc, operata dal Pool della procura di Milano nel biennio precedente.
Sembrava una vittoria annunciata ma la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto non aveva fatto i conti con la discesa in campo del Cavaliere e soprattutto con la capacità di lettura e comprensione degli italiani di ciò che era avvenuto dall’arresto di Mario Chiesa in poi.
Dopo la firma del Trattato di Maastricht per l’Italia sarebbe iniziato un lungo e duro percorso di avvicinamento all’ingresso nell’euro, fatto di tagli di bilancio, prelievi notturni nei conti correnti, riforme delle pensioni, eurotasse e la decisione scellerata del tasso di cambio di 1.936 lire per 1 euro, con iniezioni sempre più dolorose di austerità finanziaria di matrice e ispirazione tedesca.
Romano Prodi e Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, avevano già iniziato la svendita delle imprese pubbliche italiane alla finanza anglo-americana, che ebbe il suo culmine nel summit del panfilo Britannia nel 1992, e, alla luce del golpe giudiziario in corso, le speranze di ritrovare una piena sovranità in seguito al crollo del Muro di Berlino, rischiavano seriamente di essere vanificate.
L’eliminazione di Bettino Craxi, che si era sempre opposto alle privatizzazioni scriteriate che sarebbero poi state avviate di lì a poco, l’attacco speculativo alla lira del 1992 che indusse il governo all’uscita dallo SME e al dissolvimento di 24 miliardi di riserve auree della Banca d’Italia, davano la misura di un Paese sull’orlo del default, mentre lo stragismo mafioso continuava a colpire senza sosta.
Già con il governo Ciampi, il primo “governo del Presidente”, si era tracciata la strada per eseguire pedissequamente i “compiti a casa” dettati dalla futura Ue a trazione tedesca e commissariare de facto la nazione ma la vittoria di Berlusconi rallentò il disegno in atto.
Anche le prossime elezioni politiche fissate nel 2023, se la scelta del nuovo capo dello Stato non dovesse anticiparle di un anno, hanno una posta in gioco molto alta. Dal 2011 con l’avvento del governo Monti, frutto di trame estere e interne che videro il concorso di Napolitano e del duo Merkel-Sarkozy, in seguito alla crisi finanziaria dello spread scatenatasi dall’estate fino al novembre seguente (dopo il rifiuto dell’allora ministro dell’Economia Tremonti di contribuire ai debiti delle banche franco-tedesche in Grecia, la Deutsche Bank e altri istituti bancari vendettero interi pacchetti di titoli di Stato italiani inducendo un aumento vertiginoso dello spread tra Btp e Bund da 80 a 600 punti, che costrinse il IV Governo Berlusconi alle dimissioni – ndr), l’Italia non riesce più ad esprimere una maggioranza chiara e le ultime due legislature, con esecutivi formati grazie ad accordi post elettorali tra forze disomogenee e contrapposte, lo hanno dimostrato ampiamente.
L’establishment da mesi cerca insistentemente di far modificare la legge elettorale in senso totalmente proporzionale per impedire allo schieramento di centrodestra, dato per favorito, di ristabilire la piena corrispondenza tra eletti ed elettori, e predica la permanenza di Draghi a Palazzo Chigi per evitare il voto anticipato e continuare a gestire il PNRR.
Un voto che, se le previsioni saranno rispettate, escluderebbe dallo schieramento governativo il Pd, che, senza aver mai vinto un’elezione, sta al potere da quasi un decennio.
Ciò che dunque si vorrebbe perpetrare è la permanenza nella stanza dei bottoni di presunti uomini della Provvidenza mai eletti da nessuno ma scelti per il loro cursus honorum o il loro prestigio internazionale, pur di impedire agli italiani di decidere liberamente da chi farsi rappresentare.
Oggi, come ieri, il discrimine sarà tra quello che è gradito a Bruxelles, a Berlino, alle Cancellerie europee e ai mercati finanziari e quello che in una vera democrazia dovrebbero decidere solo gli elettori.