Si rafforza la disciplina governativa, adesso estesa ai settori altamente tecnologici. Ma la sua applicazione mostra già i primi segni di cedimento
di LabParlamento
Il «vuoto di potere» a cui l’Italia è destinata a ritrovarsi all’indomani del prossimo 4 marzo (stando, almeno, ai sondaggisti) pone diverse perplessità circa la possibile esposizione del sistema economico nazionale alle scorribande straniere, già vittima di assalti all’arma bianca durante l’ultimo anno.
Protagonista del dibattito politico degli ultimi giorni, infatti, è lo strumento del «Golden power», il potere di intervento statale nella governance delle società operanti in settori considerati strategici, e finalizzato alla tutela degli interessi societari in relazione alle delibere, agli atti e alle operazioni che si riflettono sugl asset definiti di prioritaria importanza per il Paese. Una «rete di protezione» governativa, dunque, tesa a favore delle aziende italiane, minacciate da possibili scalate estere, pregiudizievoli dell’interesse nazionale, e che il Governo Gentiloni ha voluto ulteriormente rafforzare.
Partendo, infatti, dalle previsioni originarie contenute nel D.L. n. 21 del 15 marzo 2012, l’esecutivo ha rinnovato l’istituto in questione, rendendolo maggiormente incisivo, attraverso specifiche previsioni contenute nel D.L. n. 148/2017 (c.d. decreto fiscale). Grazie a tale provvedimento l’esercizio dei poteri speciali sono stati estesi, accanto ai settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, anche al settore della cd. alta tecnologia, mettendo così al riparo le nuove infrastrutture «hi tech»del Paese. Intelligenza artificiale, robotica e gestione dei dati entrano sotto il cappello della vigilanza governativa, pronta ad aprire l’ombrello in caso di maltempo.
Giro di vite anche sulla disciplina riguardante la sanzione amministrativa legata alla violazione degli obblighi di notifica dell’operazione societaria da intraprendere, funzionale all’esercizio dei poteri speciali da parte del Governo nel comparto della difesa e della sicurezza nazionale: la multa potrà raggiungere fino al doppio del valore dell’operazione e, comunque, non inferiore all’uno per cento del fatturato dell’azienda colpevole dell’omessa informazione.
Ma, quando dalla carta si passa alla realtà, l’applicazione di tale strumento giuridico mostra il fianco ai dubbi legali, solleticando la fantasia di schiere di avvocati con la valigetta pronti a mettere in discussione la legittimità dell’ingerenza dello Stato nelle dinamiche aziendali.
I recenti casi che hanno visto coinvolte Mediaset e Telecom Italia, sono l’esempio più concreto delle ambizioni straniere, realtà entrambe entrate nel mirino della francese Vivendi e del suo patron Vincent Bollorè, attraverso una scalata nell’azionariato delle due società che ha lasciato dietro di se non pochi strascichi giudiziari.
Proprio come in una partita a scacchi, dove una sola mossa sbagliata può costringere ad abbandonare il gioco, il Governo, il 16 ottobre scorso, ha esercitato il «potere d’oro» su Telecom e le sue controllate Sparkle e Telsy, mettendo così sotto tutela la rete di trasmissione dell’ex monopolista, stante la rilevanza strategica della stessa per il sistema di difesa e sicurezza nazionale.
Ma la partita è destinata a continuare anche nella prossima legislatura, con il già annunciato ricorso dell’operatore al giudice amministrativo che dovrà, a questo punto, esprimersi in merito alla legittimità di tale disposizione governativa.
Saranno le toghe del Consiglio di Stato, in definitiva, a creare il primo precedente giudiziario in tale ambito, magari con il rischio di demolire le fondamenta della misura approntata dall’esecutivo Monti e perfezionata dal premier Gentiloni.
Fiato sospeso e occhi puntati su Palazzo Spada, dunque, per conoscere se le eccellenze nazionali possono essere considerate, ancora una volta, in (s)vendita.