Un altro passo in avanti in tema di diritto all’oblio, fino adesso riservato alla possibilità di chiedere al motore di ricerca di non mostrare più le pagine web contenenti notizie ormai vecchie e superate e – a partire dalle ultime novità della giurisprudenza nazionale – allargato ora anche all’eliminazione dal panorama di Internet di tutte quelle notizie false e diffamatorie.
In caso di presenza in rete, infatti, di contenuti lesivi del diritto all’onore e della reputazione, ognuno potrà chiedere ai motori di ricerca di non “scovare” più in rete tali dicerie e proporle al popolo del web, con la pena – in caso di inerzia – della condanna al risarcimento del danno.
Il caso prende le mosse dalla richiesta avanzata da un soggetto il quale si era ritrovato “mafioso” su alcuni siti di informazione web, cosa assolutamente falsa e infondata ed oggetto – in quanto tale – di ricorso alla magistratura per ottenere un accertamento di tali dichiarazioni diffamatorie.
Ottenuta giustizia dal Tribunale, lo stesso chiedeva a Google di deindicizzare tutte le pagine web che contenevano ancora quegli articoli diffamatori, così chiunque avesse ricercato notizie a partire dal nome e cognome del nostro sfortunato protagonista, non avrebbe mai più letto quelle notizie false.
Google, però nicchiava e, dopo qualche tempo, rifiutava di deindicizzare la notizia.
Da qui un nuovo intervento della magistratura, per la quale ricevuta la richiesta di deindicizzazione corredata dalla copia della sentenza passata in giudicato, infatti, Google avrebbe dovuto immediatamente attivarsi per deindicizzare quel dato personale rispetto ai c.d. “siti sorgente” che riportavano le notizie diffamatorie. “Se – come è pacifico – l’associazione tra il nome del ricorrente e i siti in cui lo stesso è definito mafioso è opera del software messo a punto appositamente e adottato da Google […] non può che conseguirne la diretta addebitabilità alla società, a titolo di responsabilità extracontrattuale, degli eventuali effetti negativi che l’applicazione di tale sistema per il trattamento dei dati dell’interessato può determinare” scrivono – nero su bianco – i giudici di prime cure.
Non essendosi prontamente adoperata per limitare il pregiudizio, il più celebre motore di ricerca al mondo è stato condannato a risarcire il danno, prima dal Tribunale di Milano (Tribunale Milano, Sez. I, Sent., 24/01/2020, n. 4911), sentenza confermata di recente dalla Cassazione (Ordinanza n. 18430/2022 dell’8 giugno 2022, Sez. I Civ.), con ammenda a carico di Big G pari a 25.000€.
Infatti, per i giudici meneghini, Google Web Search agisce come una vera e propria banca dati, avente ad oggetto pagine web scoperte e prelevate dagli spiders (ovvero il sistema utilizzato da Google per individuare le informazioni nel mare magnum del web), memorizzate su enormi sistemi di storage residenti presso la sua web-farm e, successivamente, offerti in visione in maniera aggregata ed organizzata secondo parametri scelti da Google. Durante tutte queste attività automatizzate, Google riveste il ruolo di titolare autonomo per il trattamento dei dati dell’interessato e, quindi, “con la conseguente responsabilità extracontrattuale per i risultati eventualmente lesivi determinati dal meccanismo di funzionamento di questo particolare sistema di ricerca”. A nulla rileva, per le toghe milanese, “l’assenza di ogni intenzionalità lesiva nel provider”, come sostenuto nella memoria difensiva.
Anche a giudizio degli Ermellini, infatti, spettava al celebre motore di ricerca la responsabilità di rimuovere tutte gli indirizzi web relativi alla condanna per diffamazione – non soltanto sulle pagine da esso indicizzate, ma anche su tutti gli altri siti gestiti da altri motori di ricerca, “sofferenza derivante dal perdurare della reperibilità dei dati negativi che lo riguardavano mediante attivazione delle ricerche a proprio nome sul motore generalista e la frustrazione subita alla reiezione della richiesta avanzata”.