Meglio “partner di casa” che il più sconveniente “casalinga”. “Ufficiale di polizia” al posto di “poliziotto”. Forse anche “proprietario” sembrerebbe più indicato per descrivere il “padrone di casa”, almeno secondo Google che, fra qualche tempo, potrebbe scegliere per tutti noi le parole da usare, con buona pace della libertà di scrittura e di pensiero.
Il più grande motore di ricerca, da qualche mese infatti, ha varato una nuova funzionalità all’interno dei suoi fogli “Google Doc” per spingere gli utenti ad usare linguaggi politicamente corretti e non discriminatori, con il rischio di avere, domani, testi-fotocopia.
Il testo c.d. “predittivo” è a volte un’ancora di salvezza tesa ad aiutare gli scrittori da imbarazzanti errori grammaticali o di ortografia, ma ora Google sta entrando a gamba tesa nel linguaggio di ognuno, dicendo agli utenti di non usare particolari parole particolari, perché – a suo dire – non sarebbero abbastanza inclusive.
“Coniuge casalingo” o “scheda madre” infatti, sono soltanto alcune delle parole che, in automatico, Google Doc suggerisce a chi sta scrivendo sui propri fogli elettronici. Un suggerimento robotizzato (che si può accettare o meno) e che vorrebbe spingere verso una maggiore “inclusività” dei testi, falsando però la costruzione narrativa che ognuno di noi compie quando si trova davanti ad un foglio bianco (seppur elettronico).
Ma l’algoritmo non gode del dono dell’infallibilità e, sotto il suo sguardo da censore, a volte esagera (o falla): è il caso, ad esempio, della trascrizione di un’intervista all’ex leader del Klu Klux Klan David Duke, in cui egli usa toni non proprio benevoli verso persone di colore diverso dal suo; in questo caso Google non ha ritenuto di dover censurare nulla, forse per rispetto alla libertà di pensiero. Dove invece ha messo becco è stato nel discorso inaugurale di John Fitzgerald Kennedy: secondo l’algoritmo di Big G la frase “per tutto il genere umano” sarebbe meglio cambiarla in “per tutta l’umanità”.
Al di là delle note di colore, il fenomeno desta preoccupazione. Silkie Carlo, esponente di spicco del Big Brother Watch (l’organizzazione britannica impegnata nella difesa delle libertà civili) ha lanciato il proprio grido di allarme: “Le nuove parole di avvertimento di Google non sono di aiuto, sono profondamente invadenti”, una sorta di controllo “di polizia” che per l’attivista “è profondamente goffo, inquietante e sbagliato, spesso rafforza i pregiudizi”.
Non sappiamo ancora se l’umanità si avvia ad entrare in una “dittatura del linguaggio” ma tant’è. E intanto l’algoritmo incontrollato macina sinonimi da benpensante.