Cento anni fa l’Italia, uscita vincitrice dalla prima guerra mondiale, comprese quanto i propri sacrifici – circa cinquecentomila morti e tre anni di guerra in tricea – si fossero palesati inutili per ottenere quel bottino che i patti di Londra gli avevano invece accordato.
Nacque così un periodo di turbolenza, di smarrimento e incertezza che gli storici, già all’epoca, chiamarono “biennio rosso”; due anni, il 1920 e il 1921 che segnarono, inevitabilmente la vita del nostro Paese, sia per la crisi che si generò e per i cambiamenti sociali repentini che ne seguirono.
Bastarono due anni di cambiamenti per modificare la coscienza sociale di un Paese che usciva fuori, almeno prima della Grande guerra, da numeri impressionanti per crescita sociale ed economica, industrializzazione ed emancipazione, anche e soprattutto della classe femminile.
A cento anni di distanza, pur in assenza di un evento bellico di tale portata, siamo di fronte a dati economici che, sulla produzione e sull’occupazione, appaiono tristemente simili ai “segni meno” che contraddistinsero quell’immediata e drammatica fase.
In piena pandemia, l’Italia, unica tra le grandi potenze e in compagnia della sola Olanda all’interno dell’Unione Europea, ha deciso di avviare una riflessione sulla compagine di governo e nonostante i bizantinismi e i discorsi-fiume, alla gran parte degli italiani – anche di quelli che non appoggiano e non appoggeranno la maggioranza – le motivazioni di questa crisi, ma soprattutto i vantaggi, risultano oscuri.
I mandati esplorativi, le consultazioni, ora più simili alle file negli uffici postali con tanto di plexiglas divisori e file ordinatissime, piuttosto che ai riti quirinalizi immutabili dalla presidenza Einaudi, appaiono ora più che mai protocolli politici totalmente inadatti per la situazione e ingiustificabili in piena campagna vaccinale. Ma di tutto ciò alla politica importa poco. Siamo fuori dalla realtà. Lo pensiamo, ma non lo diciamo.
Certi dell’impossibilità di arrivare a nuove elezioni in tempi brevi, la politica, tutta, sfila in queste ore all’interno della vetrina delle maratone televisive che, giocoforza, garantisce visibilità per argomenti dai toni perentori che potrebbero risvegliare, almeno sulla carta, il dolce sonno che ormai da marzo attanaglia gli italiani. La maggioranza, così come l’opposizione, al di là delle parole di circostanza – che, bontà loro, vengono profferite – sembrano un corpo estraneo rispetto alla vita reale di un Paese che ancora non ha, evidentemente del tutto, la consapevolezza di ciò che verrà.
Non si contano i contratti di lavoro che hanno trovato fine, a causa di un cavillo o l’altro. Ancora ben lungi dall’essere compresa materialmente, la crisi dalla quale saremmo usciti, almeno secondo i proclami dei governi che si sono succeduti in questi ultimi anni, è invece immanente.
Arriveranno tempi peggiori, e a differenza del passato ne siamo stavolta tutti consapevoli. E come cento anni fa, quando nel nostro Paese emersero idee e uomini nuovi, la stessa cosa accadrà a breve.
Certo. Non abbiamo più il debole Statuto Albertino che garantiva, ma anche no, lo stato di diritto. Che garantiva, ma anche no, la democrazia parlamentare che, per ragioni ontologiche rimane oggi l’unica forma di governo che si confà allo spirito della nazione. Della nazione, non dello Stato.
Abbiamo una Costituzione che, nonostante la pretesa immutabilità dei propri principi fondanti, riesce oggi ad essere piegata con abilità e sprezzo del pericolo per le manovre (parlamentari, s’intende) della peggiore specie.
Abbiamo di fronte non la fine, ma l’inizio del tunnel. Che se una volta garantiva l’incertezza adesso prelude al buio più totale, nonostante i fiori viola dai timidi richiami ai fumetti, che oggi, chissà con quale successo, pretendono di garantire al paziente un felice decorso. E una fulgida attesa.
E’ bene che qualcuno cominci a dirlo.