“La fine della storia”. Così lo storico e politologo statunitense Francis Fukuyama descrisse nel suo libro più famoso il mondo che si prospettava dopo la caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre del 1989, quando il modello capitalista e liberaldemocratico occidentale sembrava uscito trionfante dalla quarantennale Guerra Fredda tra USA e URSS.
In pochi anni, tuttavia, quella che fu definita pax americana e che aveva dato avvio alla globalizzazione nel contesto di un ordine mondiale basato sull’unipolarità a stelle strisce, si trasformò in una pericolosa primazia della finanza sulla politica e in un sostanziale disordine globale in cui la ricchezza, come intuì profeticamente Giulio Tremonti, entrava nella repubblica internazionale del denaro, erodendo le leve del potere degli Stati nazionali.
Nella prima fase, Gli Stati Uniti commisero tre errori strategici: non accompagnare la Russia in un percorso verso la democratizzazione che avrebbe comportato la sua inclusione stabile nel G8, strada perseguita, in modo lungimirante ma vano, da Silvio Berlusconi, sottovalutare il pericolo immanente del terrorismo islamico e, soprattutto, permettere, anzi, favorire l’ingresso della Cina nella Word Trade Organization nel 2001.
Nei decenni seguenti si sarebbero stemperati gli effetti positivi del commercio globale deregolato sull’aumento del PIL globale e sull’accessibilità diffusa di merci e prodotti a prezzi contenuti, mentre sarebbero emersi prepotentemente gli effetti collaterali di un sistema che, basandosi sulla ricerca di manodopera a basso costo per imporsi sui mercati, cominciò ad erodere il potere d’acquisto della working class dei Paesi occidentali, come descrive egregiamente il libro del Vicepresidente americano J.D. Vance “Elegia Americana”, e ad accelerare la deindustrializzazione degli USA, rendendo palese l’insostenibilità del legame tra globalizzazione e democrazia.
Infatti, l’espansione dell’economia e il dominio della finanza non hanno esportato la democrazia ma hanno favorito le mire egemoniche e imperialiste del Dragone cinese e di innumerevoli autocrazie. Per un’incredibile eterogenesi dei fini, la superpotenza uscita vincitrice dalla Guerra Fredda, che aveva promosso la globalizzazione pensando di trarne gradi benefici, ne è stata fortemente indebolita e penalizzata. Da qui deriva il travolgente successo di Donald Trump e il suo tentativo, a partire dalla politica dei dazi, di riscrivere non solo le regole del commercio globale ma anche un nuovo ordine mondiale, accorciando le filiere produttive e riportando sotto il controllo degli Stati nazionali le catene di approvvigionamento delle materie prime strategiche, come le terre rare, i semiconduttori e i Big Data propedeutici allo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale.
Come spesso è accaduto nella sua storia, gli USA si trovano ad affrontare e sconfiggere un mostro da loro creato ma, mentre nei casi precedenti di Saddam Hussein, finanziato e armato nella guerra contro l’Iran, e dei Talebani, sostenuti nella resistenza antisovietica, si trattava di casi prettamente militari, oggi la sfida è strutturalmente strategica e geopolitica: ridimensionare il ruolo e la potenza del regime comunista cinese minando le fondamenta del sistema che lo ha reso così forte.
Tuttavia, a differenza della sfida all’URSS, stavolta l’impresa appare molto più ardua, perché la Cina è un pilastro del capitalismo globale, essendo divenuta la fabbrica del mondo ed è un pericoloso concorrente nei settori da cui dipende la supremazia mondiale, quali la digitalizzazione, i satelliti militari, la fornitura della componentistica industriale e la produzione manifatturiera. Il capitalismo di Stato cinese, controllato e indirizzato con metodi ferrei dal partito unico ha tratto i maggiori frutti da questo sistema acefalo e ha un vantaggio competitivo sulle democrazie che consiste nel fattore tempo dettato dal suo dirigismo feroce ma, senza poter offrire immensi profitti alle aziende straniere per l’irrisorio costo del lavoro, dovrebbe giocoforza ridimensionare la sua impetuosa crescita economica e la sua influenza sulla geopolitica mondiale.
Eliminare il dumping sociale è la chiave decisiva per imporre la deglobalizzazione e stabilire un nuovo ordine mondiale. La posta in gioco è riuscire a governare il libero mercato su scala mondiale e reindustrializzare il mondo occidentale. Più di trent’anni di globalizzazione senza regole hanno dimostrato che l’espansione degli scambi commerciali non ha favorito l’affermarsi di regimi democratici ma l’esatto contrario.
Pertanto, per prosciugare l’acqua in cui nuota lo squalo cinese è necessario attuare politiche di reshoring per fermare le delocalizzazioni e riportare le produzioni industriali all’interno dei confini degli Stati nazionali. Da un lato è necessario rendere attrattivi investimenti economici defiscalizzando e sburocratizzando gli oneri per le imprese ma dall’altro sarà inevitabile il ritorno di un ruolo dello Stato nella gestione dell’economia, quanto meno nelle filiere produttive strategiche. Ciò condurrebbe a un nuovo bipolarismo e al ritorno della politica delle sfere d’influenza.
In questo senso, sottrarre l’Africa al soffocante dominio cinese è un obiettivo irrinunciabile per gli Usa e i suoi alleati. Pechino, infatti, da molti anni depreda gli Stati africani di materie prime e cibo mediante il land grabbing in cambio di contratti capestro riguardanti la costruzione di infrastrutture e prestiti finanziari che finiscono per strozzare a poco a poco i governi che dipendono dall’acquisto di titoli di Stato da parte dei cinesi. Il Piano Mattei, promosso dal governo Meloni, che prevede accordi di partenariato su base paritaria e non predatoria tra l’Italia e molti paesi africani nei settori energetico, industriale, agricolo e di formazione professionale può contribuire a contrastare l’influenza cinese in Africa e a rendere l’Italia un alleato imprescindibile degli USA nell’area.
Al contempo, gli Stati Uniti dovranno diminuire drasticamente la vendita dei propri titoli di Stato alla Cina, per non essere ricattabili finanziariamente. L’Italia e l’Unione europea, invece, dovranno schierarsi convintamente con Washington nel nuovo mondo bipolare che si va configurando ma, per far questo, dovranno abbandonare senza indugi le politiche fallimentari del Green Deal, che renderebbero il Vecchio Continente un deserto industriale alle dipendenze di Pechino, e riformare la sua governance in senso confederale, rinunciando al dannoso e antistorico nuovo Patto di Stabilità, appena nato e già travolto dall’impetuoso vento della Storia.