Poche sere fa in un noto talk-show, l’Amministratore Delegato di un’importante casa automobilistica che non ha risentito della crisi ha affermato che “il capitale più rilevante dell’azienda è quello che varca i cancelli tutte le sere”. Consapevole, quale datore di lavoro, che non c’è informatizzazione che tenga senza valorizzazione del capitale umano, unico valore aziendale su cui investire.
Troppo spesso, invece, il datore di lavoro P.A. – governo, parlamento in specie – denigra i propri dipendenti a scopo populista, puntando in modo roboante il dito contro i pochi che sbagliano e dimenticando i tanti che lavorano bene perché non fa notizia, ritenendolo l’unico valore aziendale su cui disinvestire.
Fermo restando che il datore di lavoro non dovrebbe mai parlare male dei propri dipendenti, ma vedersela al proprio interno per evitare sfiducia nelle istituzioni, da un governo cosiddetto “dei migliori” non ci si può che attendere riforme che mirino ad una PA “dei migliori”. E i “migliori” non possono non capire che tutte le politiche del personale depressive degli ultimi decenni (direi dalle leggi Bassanini in poi, con culmine nella riforma Madia), fondate più sullo spoil system selvaggio, sulla rotazione e gestionalità a prescindere dalle professionalità, hanno determinato l’effetto opposto della buona amministrazione, a cui non solo il dipendente pubblico è tenuto, ma anche il datore di lavoro, che è la P.A.
Che non sia allora il momento di virare totalmente? Di varare riforme espansive del pubblico impiego? Di tornare a mettere le persone giuste al posto giusto? Di tornare a valorizzare la professionalità e premiare il merito e non la gestionalità fine a sé stessa?
Se le istituzioni non svolgono il loro ruolo – centrale nel fissare i giusti incentivi, nel ridurre l’incertezza e nel favorire la prosperità a lungo termine – si ha un funzionamento carente della pubblica amministrazione e ciò ostacola in maniera significativa il funzionamento non solo del nostro Paese, ma dell’intero mercato unico in cui siamo inseriti.
Non è un caso che alcuni paesi dell’Ue si sono impegnati sistematicamente per migliorare il funzionamento delle loro amministrazioni per adeguarli con cognitio ai rapidi cambiamenti sociali, tecnologici ed economici attuali. Oggi, causa pandemia, l’Ue ha stanziato ingenti fondi (Recovery Fund) proprio per sostenere le azioni in questo campo (non dimentichiamo che PA è anche la giustizia, la sanità, la scuola, ecc., che guarda caso sono i settori più nevralgici, oggetto di sconsiderate politiche depressive sulla valorizzazione delle professioni).
Ma per riformare in modo mirato, funzionale, efficiente ed economico, bisogna ascoltare gli “addetti del mestiere”, non i “professoroni”, gli “esperti omnia”, le “task force”, i magistrati, tutti buoni per tutte le stagioni. Occorre ascoltare i magistrati e gli avvocati per la giustizia, occorre ascoltare i sanitari per la sanità, i pubblici dipendenti per la burocrazia pubblica, gli insegnanti per la scuola e i professori per l’Università. Altrimenti facciamo solo accademia e le toppe vendute per riforme rendono la situazione che tutti abbiamo sotto gli occhi.
Ebbene, alcuni studi hanno evidenziato che le riforme attuate in numerosi Stati membri, negli ultimi due decenni, hanno per certi versi migliorato l’efficacia in termini di costi e l’efficienza della pubblica amministrazione, sicché nel complesso, le istituzioni di molti Stati sono diventate più aperte e trasparenti e l’accesso ai servizi, nonché la loro qualità, sono migliorati. Specularmente, nello stesso periodo a causa dei tagli drastici, nel nostro Paese le cose sono andate all’opposto: la fiducia dei cittadini nei poteri pubblici, la coesione sociale e l’attrattiva del pubblico impiego sono peggiorate.
Ecco: l’attrattività. Se non si valorizza il merito, la professionalità, il curriculum, ma la clientela, la consulenza esterna, lo yes-man, le logiche politiche o di bilancio, i migliori non saranno mai attratti dalla PA, con il risultato che, rispetto al resto d’Europa, non saremo mai attrattivi e, di conseguenza, mai competitivi.
Rammento la disastrosa riforma Madia della dirigenza, ove si voleva togliere alla dirigenza pubblica qualsiasi livello di autonomia, che non a caso naufragò contro lo scoglio della Corte Costituzionale. Non è sbagliato togliere ogni autonomia se ciò, però, riporta com’era in passato (pre-riforma enti locali del 1990) il centro di imputazione della responsabilità al politico, cui spettava la firma degli atti e dunque la responsabilità finale. Al contrario, laddove il centro di imputazione della responsabilità è incentrato sul dirigente pubblico, a questo deve accompagnarsi anche un alto livello di autonomia e distinzione dalla politica reale non asserita.
Raramente le istituzioni e i politici vengono sollecitati a rafforzare la capacità di riflessione interna, a trarre insegnamenti dagli insuccessi o a innovare, troppo innamorati delle proprie tesi. A me pare che negli ultimi decenni la bulimia riformatoria, prolungata e intensiva abbia portato a una “stanchezza da riforme” generale, ad una stratificazione normativa, spesso contrastante, scollegata, mal scritta, che determina per forza deficit di qualità nella sua applicazione, mantenendo molti aspetti del cambiamento amministrativo fragili e frammentari.
La mancanza di un’alta dirigenza indipendente e professionale alla guida della modernizzazione ha impedito a diverse modifiche legislative di riflettersi nelle azioni pratiche per la collettività.