In tempi di pandemia è entrato in voga un nuovo adagio tra le forze politiche: “ci sono cose più importanti”. Una frase che vuol dire tutto e conseguentemente anche niente è che viene adoperata alla bisogna per rimandare il rimandabile e che si presta un po’ a tutti gli ambiti: dal rinvio dell’approvazione del Ddl Zan alla discussione sullo Ius Soli.
Ma se gli aspetti etici dei due esempi in questione rimandano a tanto naturali quanto inspiegabilmente ancora insuperabili contrapposizioni tra gli schieramenti politici, lo stesso discorso non dovrebbe valere per le materie economiche che, a prescindere dal colore del proprio partito, interessano tutto il tessuto produttivo e dunque sociale del nostro Paese.
In tutto il nuovo sistema lessicale che sta accompagnando la stagione dell’auspicabile superamento dell’acuto pandemico, tra resilienza e ripresa, tra ripartenza e rilancio, tra sostegni e consumi, è stato dimenticato un annoso costrutto che ha dalla sua il vizio di non dimenticarsi dell’Italia e della sua ondivaga terminologia: il debito pubblico.
La pandemia, si sa, ha sparigliato le carte su tutti i tavoli da gioco, da quello sanitario e sociale fino a quello economico e finanziario: come nella Formula uno, è entrata in pista una sorta di safety car, che ha annullato le distanze e cristallizzato i gap strutturali tra Paesi.
Mamma Europa, dopo qualche indugio iniziale, ha fatto il suo, permettendo di non rispettare il patto di stabilità ai Paesi membri e acquistando titoli di Stato a suon di miliardi: solo nel 2020 la Bce ha comprato titoli italiani per un equivalente di 145 miliardi di euro, permettendo di mettere mano a portafogli – virtuali si intende – e affrontare tutte le conseguenze dell’emergenza.
In un contesto straordinario la ricetta italiana, la panacea universale, si è rivelata essere sempre la stessa: fare più debito. Basta analizzare l’andamento dell’ultimo biennio per averne contezza. Nel 2019 l’Italia aveva un debito di poco più di 2.400 miliardi di euro, al 134,7% del PIL; nel 2020 ha raggiunto quota 2.569 miliardi di euro, a circa il 157% del PIL mentre, per il 2021, è previsto il superamento del 160% nel rapporto deficit/PIL che in soldoni si traduce in 2.650 miliardi di euro di debito, circa 43mila euro a testa per ogni italiano, pargoli e pargoletti compresi.
Occorre, inoltre, sottolineare che la previsione va di pari passo con una crescita del PIL pari al 4,5% per il 2021, ovvero il tanto atteso rimbalzo dell’economia che in ogni caso non toccherà il deficit che crescerà comunque di quasi 12 punti percentuali.
Numeri che, se non altro in questa fase, sembrano non destare preoccupazione. Eppure le misure straordinarie per contenere gli effetti della pandemia sono prossime a volgere al termine. Partendo dall’Europa: il patto di stabilità tornerà in vigore probabilmente dal 2023; il Quantitative Easing, che già ha superato la sua naturale scadenza, essendo in vigore dal 2015, troverà la sua fine in uno o due anni mentre, sul fronte nazionale prima o poi scoppierà la bolla della disoccupazione, in coma farmacologico grazie al blocco dei licenziamenti ma che potrebbe lasciare senza lavoro un milione di persone.
Inoltre, il clima di incertezza spinge gli italiani che possono a indirizzare i propri quattrini verso il risparmio, a scapito del consumo, paralizzando capitali e non dando riflessi di crescita economica.
Un altro fattore pare attualmente sottovalutato: il ritorno dell’inflazione, antica nemica della spesa pubblica e ancor più privata, dormiente da diversi anni. Negli Usa ha ripreso a galoppare, registrando, nell’ultimo mese, un balzo congiunturale che non si vedeva dai primi anni ’80. Non serve scomodare Keynes per capire che nell’Occidente così economicamente legato e in generale in un mondo globalizzato, il trend arriverà a breve nel Vecchio Continente.
Ci saranno “cose più importanti” da affrontare ma è anche possibile creare una lista delle priorità ed inserire, anche solo a matita, una vaga preoccupazione per il debito pubblico perché quando lo scenario di cui sopra si concretizzerà l’Italia sarà ben più esposta degli altri Paesi europei.
La Germania è da sempre virtuosa in materia; la Francia ha un debito privato molto alto ma un debito pubblico sotto controllo. Quando la nera parentesi della pandemia si chiuderà occorrerà tenere conto che non esiste debito “buono” e debito “cattivo”: esiste solo il debito e la connotazione di giudizio è legata esclusivamente alla credibilità dei creditori e dei debitori. Ne consegue che il Tesoro italiano avrà difficoltà, con queste premesse, a piazzare sui mercati i titoli italiani e a farlo a prezzi vantaggiosi.
Tuttavia, per le forze politiche, tutto questo deve essere considerato come una favola fantasy o come una serie sci-fi, pressoché irrealizzabile. E dunque è giusto continuare a chiedere scostamenti di bilancio miliardari come fossero birrette fresche in un caldo pomeriggio estivo: “Mario, segna un altro giro!”.
Tanto, il conto del “Bar Mario”, lo pagano le nuove generazioni.