Il cordoglio unanime e l’attenzione quasi morbosa nei confronti della recente scomparsa della Regina Elisabetta II del Regno Unito, ha travolto il mondo quanto se non più della pandemia. Dirette fiume da Londra e da Balmoral, talk show commossi a reti unificate, per non parlare del florilegio di post e meme sui profili social di miliardi di persone comuni, quasi come se fosse morta una loro zia. Anzi di più, che magari con la vera zia qualcuno ci avrà pure litigato e non gliel’avrà ancora perdonata.
Quell’istituzione arcaica che è la monarchia – una modalità di governo che, fin dai tempi della Rivoluzione francese, pareva destinata ad essere spazzata via dalla storia – si è dimostrata, in questa occasione, sorprendentemente vitale, amata in modo totale e acritico da tutte le fasce sociali, capace di suscitare emozioni fortissime, in morte come in vita e come nessun primo ministro o presidente della repubblica sarebbe mai in grado di fare.
Certo, è una monarchia 2.0, che ha un po’ annacquato quell’aura sacrale d’istituzione intoccabile, per diritto divino, trasformandosi semmai in un’icona pop, prestandosi dunque come modello per i quadri di Andy Warhol, o recitando una parte nei film con James Bond. Però attenzione a credere che questa sia davvero una novità, un trasformarsi e un cambiare pelle, per stare al passo coi tempi.
Quella Lillibet ritratta da Warhol, o protagonista di uno spot con Daniel Craig, è perfettamente in linea con una tradizione plurimillenaria. Qualunque sovrano, da secoli, si è sempre fatto fare il ritratto dal pittore più alla moda del suo tempo. Per non parlare del Re Sole, che faceva l’attore a Versailles in tutti i più importanti spettacoli teatrali: praticamente la versione seicentesca di quell’Elisabetta-Bond girl, vista in occasione delle Olimpiadi londinesi.
Dunque la monarchia elisabettiana, amata da tutti, quell’anacronismo che piace alla gente che piace e anche a quella che non piace, è la monarchia di sempre, immutabile e tradizionalista, quella amata già ai tempi delle Signorie e del Sacro Romano Impero, dell’assolutismo e dei regni dove non tramontava mai il sole. D’altronde, persino quella rivoluzione francese scoppiata per spazzarla via, non finì poi per ripristinarla la monarchia e per dare a Napoleone un trono e un titolo da Imperatore?
Perciò, è come se la monarchia rispondesse a un qualche bisogno segreto dell’uomo, un bisogno ormai inconfessabile, politicamente scorretto, razionalmente inconcepibile dopo gli insegnamenti dell’illuminismo e due secoli di democrazia, eppure irrinunciabile. Cambiano le epoche, le culture, le società, ma quel bisogno resta lì, manifestandosi in modo inequivocabile, nonostante mille sforzi per cancellarlo.
Certo, sparse qua e là, non mancano alcune voci critiche. Qualcuno, anche in morte di Elisabetta, non ha esitato a ricordare i crimini del colonialismo britannico, gli scandali, le contraddizioni. C’è anche chi, come la testata Jacobin Italia, si è spinto a dire che: “re e regine sono statue da abbattere perché rappresentano il comando dei pochi e la sudditanza dei molti”. Però sono voci prive di un vero seguito, forse persino necessarie per non rendere monotono e stucchevole il coro favorevole alla monarchia, dandogli così più forza.
Ma quale segreto si cela dietro al successo della monarchia? Innanzi tutto il bisogno di simboli, di eroi, di miti, che è irrinunciabile per qualunque società. Miti, simboli ed eroi che, per divenire tali, devono anche apparire eterni, immortali. E la monarchia è l’istituzione terrena che più somiglia a tutto ciò. I politici vanno e vengono, dunque, soprattutto quando e nazioni sono scosse da crisi e stravolgimenti, è la figura del sovrano, con l’aura quasi soprannaturale dell’istituzione, a creare un senso di continuità e di unità, a cui la popolazione si aggrappa in tempi di guerra e di cui s’inorgoglisce in tempi di pace.
Pensiamo poi a un’altra famosa monarchia contemporanea, in quel caso addirittura ancora considerata in vigore per diritto divino: quella del Vaticano. Nel corso del Settecento e dell’Ottocento il papato ha subito una forte crisi. Il suo potere, anche morale, era vicino allo zero, persino in Italia, uno Stato che difatti nacque laico e anticlericale. Nel Novecento, però, avvenne un’inversione di rotta e quell’istituzione tornò ad essere ascoltata e rispettata in tutto il mondo.
Merito dei papi saliti al soglio pontificio in quegli anni? Forse. Ma forse anche merito del crollo degli Imperi centrali dopo la Grande Guerra, della progressiva abolizione delle monarchie in molti paesi d’Europa. Il Papa tornava ad essere ammirato ovunque, anche perché suppliva a quelle mancanze, divenendo lui la figura monarchica carismatica delle nuove repubbliche occidentali, quella figura “eterna” da cui essere rassicurati e che altrove era venuta a mancare.
A proposito di papi e di monarchi, Robert Lacey, il famoso storico, consulente della serie Netflix “The Crown”, ha provato a risolvere la questione con una battuta ad effetto: “Ci sono più possibilità di abolire il papato che la monarchia britannica, ma il Real Madrid durerà più a lungo di entrambi”. La battuta funziona, ma personalmente ho molti dubbi in merito. Papato e monarchia durano da millenni perché rispondono a bisogni primari molto più profondi di quelli appagati da un pur simbolicamente utile Real Madrid.
Un po’ meno battuta, anche se ugualmente provocatoria, è la frase che mi disse anni fa Silvia Ortolani – un’amica, oggi docente al dipartimento di spettacolo della Sapienza – dopo aver seguito un seminario col recentemente scomparso regista Peter Brook, reo di aver usato metodi d’insegnamento un po’ autoritari: “Mi sono accorta che la dittatura è molto comoda, perché puoi scaricare ogni fallimento e responsabilità sul dittatore”.
Trasferita dalla dittatura alla monarchia, quella frase svela un altro segreto del successo monarchico: grazie alla sua aura taumaturgica ed eterna, la monarchia permette di scaricare su di sé meriti e colpe; dunque, permette ai sudditi di sentirsi sollevati dal peso di ogni responsabilità. Se le cose vanno bene ci si inchina. Ma nel caso vadano male si può pur sempre tagliare la testa al re, o abbattere le sue statue. Cosa molto più semplice del dover analizzare le cause di eventuali fallimenti sociali e dover modificare poi scelte e comportamenti sbagliati.
D’altronde, in alcune antiche culture, la figura del sovrano svolgeva questo compito in modo concreto e non solo simbolico. Lo si trattava in vita con tutti gli onori, come una divinità. Ma al primo piccolo problema il suo dovere era quello di lasciarsi trascinare su una qualche rupe, per farsi buttare giù dal popolo, in modo da ingraziarsi gli dèi ed essere poi sostituito da un nuovo monarca. Il re è morto, viva il re.
Per chi crede che la nostra società abbia lasciato alle spalle quelle vecchie superstizioni, l’attenzione planetaria e duratura suscitata dalla morte di Elisabetta II, sta a dimostrare – o perlomeno a istillare il dubbio – di come forse non sia proprio così. In fondo, siamo e saremo sempre, nei millenni, la stessa identica razza animale, con identiche inconfessabili pulsioni e uguali necessità.