Ai tempi del re Vittorio Emanuele II, quando la sinistra storica andò al governo per la prima volta, suscitando timori di svolte rivoluzionarie, fra le armi di ricatto usate da Casa Savoia per evitare indesiderati “salti in avanti” e l’approvazione di leggi troppo innovatrici, la più efficace fu senz’altro la minaccia di concedere il suffragio universale.
Il vecchio sovrano sapeva bene, infatti, che i parlamentari progressisti avrebbero temuto come la peste un voto esteso anche a braccianti e contadini, tradizionalmente legati a idee più conservatrici, e utilizzò più volte questa ipotesi come spauracchio, per indurre il governo e il parlamento a una politica più gradita ai regnanti.
Quando poi, nel 1912, fu finalmente concesso il voto a tutti, fu soprattutto il Partito Socialista Italiano a porsi in prima linea per limitarne la concessione ai soli cittadini maschi, convinto com’era che le donne avrebbero supportato in larghissima maggioranza i partiti cattolici e conservatori e che quindi, concedendo anche a loro il diritto di voto, la sinistra avrebbe perso peso politico.
Per chi abbia in mente la sinistra italiana nella sua versione successiva alla seconda guerra mondiale, cioè quella della prima repubblica, a trazione comunista e a vocazione popolare, con flebili ma comunque mai del tutto sopite velleità rivoluzionarie, pare strano vedere come oggi, quell’area politica un tempo diffusa fra le classi subalterne, abbia successo soprattutto nei centri storici e fra i ceti più abbienti, mentre attecchisca molto meno in periferia.
Quella che viene spesso definita la “sinistra ZTL” sembrerebbe una novità dei nostri tempi, ma è in realtà la riproposizione di quello schema politico ottocentesco presentato poc’anzi, quando il pensiero progressista aveva ben poco di popolare ed era appannaggio di una élite colta e benestante, di una minoranza di persone più ricche e più istruite, che viaggiava, leggeva i giornali e annusava i temi e le filosofie politiche più alla moda nel mondo dell’epoca.
Una minoranza che diveniva maggioranza all’interno di quel 7% di italiani aventi diritto al voto. Così come è oggi probabilmente minoranza in un paese che in larga parte non si reca più alle urne, ma è spesso maggioranza fra gli Italiani che votano e che contano.
A voler completare il quadro, c’è comunque da dire che l’obiettivo di una politica gestitada una minoranza di persone, da una élite di migliori, non è affatto un’esclusiva della sinistra, ma è una tentazione avuta – a seconda dei momenti storici – più o meno da tutti gli schieramenti politici, soprattutto quando quegli schieramenti si trovavano idealmente a condividere la finalità di mantenere lo status quo sociale e gli obiettivi delle classi in quel momento dominanti.
Questa lunga premessa può forse aiutare a comprendere meglio il momento politico attuale. Oggi, da una parte abbiamo una maggioranza di governo quasi unanime, cosa che lascerebbe supporre il coagularsi di un altrettanto ampia opposizione democratica, viste le praterie di temi popolari lasciati incustoditi dalla quasi totalità delle forze politiche.
Questo però non è avvenuto, vuoi per l’inadeguatezza di alcune forze di opposizione – in alcuni casi non solo inadeguatezza politica, ma anche inadeguatezza di forze economiche per pubblicizzare e far conoscere a tutti i propri temi – vuoi per mille altre ragioni. Come risultato, chi oggi non si riconosce nelle attuali politiche di maggioranza, anziché scegliere partiti non governativi, non trovando neanche in quelli risposte adeguate, quasi sempre preferisce disertare le urne.
Questa crescente astensione popolare, molto evidente durante le recenti amministrative, spesso motivata da un aperto dissenso verso le forze di maggioranza – o, come si usa dire oggi, verso le forze mainstream – molti analisti la indicano come un possibile primo avviso di sfratto per l’attuale classe politica al governo.
A mio avviso, quegli analisti stanno però sbagliando completamente analisi e chiave di lettura.
Paradossalmente, infatti, proprio quell’astensione di massa è, al contrario, il più concreto segno del totale successo delle forze governative, il simbolo dell’inarrestabile avanzata di un’area politica e culturale, contraria – pure se non in modo esplicito – a una reale partecipazione popolare alla politica e ormai capace di vincere senza più la fatica di dover convincere anche le masse per governare, essendosi quelle masse auto eliminate dal dibattito pubblico.
L’antico obiettivo aristocratico e antidemocratico di un governo riservato ai pochi, ai migliori – aristocrazia vuol dire infatti “governo dei migliori” – alle élites, pare dunque quasi raggiunto nel modo più indolore.
Non c’è quasi più nessun bisogno della coercizione forzosa delle classi popolari, come avveniva all’epoca dei vecchi totalitarismi del Novecento: è sufficiente avviare una “moral dissuasion”, cioè diffondere fra la popolazione uno scetticismo generalizzato e molto funzionale, che può diventare ben presto auto censura, allontanando la maggioranza degli italiani dal cuore del dibattito politico, in modo spontaneo.
L’allontanamento delle masse anche dalle urne, lascia così, di fatto, la gestione della cosa pubblica completamente in mano a un gioco – tutto autoreferenziale – di equilibri fra lobbies e classi dirigenti, senza più forme di controllo e di contrappeso popolare.
Questo, in sé, non ha nulla di scandaloso. Per secoli è stato il meccanismo primario, se non unico, della politica locale e nazionale italiana: lo è stato nell’epoca dei comuni e delle signorie, dell’assolutismo e del liberalismo, poi col fascismo, fino all’avvento della repubblica. E non tutti quei momenti storici possono essere considerati negativi. Anzi, in alcuni di essi l’Italia ha visto un grande fiorire delle arti e dell’economia, come ad esempio durante un momento – assai poco democratico sul piano politico – come il Rinascimento.
Si tratta però, chiaramente, di uno svuotamento sostanziale del sistema democratico conosciuto negli ultimi settant’anni. Di quella democrazia – parola che letteralmente significa “governo di popolo” – di cui pare ormai rimanere solo il simulacro, ma non più la sostanza. Di ciò è bene essere consapevoli.
Per i più riottosi, per chi prova ancora a fare sentire la propria voce dissonante – dissonanza che negli ultimi mesi si è coagulata soprattutto nelle manifestazioni anti Green Pass – resta ancora, comunque, un piccolo retaggio della “strategia della tensione” di novecentesca memoria.
Lasciare crescere il livello di scontro, anche attraverso atteggiamenti delle forze dell’ordine altalenanti, a volte eccessivamente violenti – come avvenuto in varie occasioni, anche con gli occupanti minorenni del liceo Ripetta di Roma – altre volte sorprendentemente morbidi, con episodi opachi, sospette infiltrazioni e, soprattutto, criminalizzazione indifferenziata dei manifestanti, tutti messi in un unico calderone, è un metodo che parrebbe tornato di moda.
Forse, però, non è così. Funzionò bene negli anni settanta, rafforzando l‘allora governo a discapito delle opposizioni dell’epoca. La differenza con quel periodo storico, sta però nel fatto che oggi, probabilmente, l’obiettivo non è più l’innalzamento del livello di violenza fino a che non ci “scappi il morto” – o peggio ancora “molti morti” come avvenne nelle stragi degli anni di piombo – provocando uno shock e una reazione conservatrice nel paese.
L’obiettivo, stavolta, pare essere quello di trasformare rapidamente l’apparente “strategia della tensione” iniziale – rimasta solo come retaggio vintage di un passato ormai inattuale – in una più moderna e funzionale “strategia dell’astensione” finale. Cioè fare in modo di convincere rapidamente, non solo la maggior parte della popolazione, ma anche la maggior parte dei potenziali manifestanti, che partecipare attivamente a qualunque manifestazione sia non solo inutile, ma controproducente.
Magari solo per non venire strumentalizzati e non essere tacciati tutti, indiscriminatamente, di “complottismo” e di “neofascismo”, come accaduto per chi era a Piazza del Popolo alcune settimane fa, nonostante la presenza, in quella occasione, anche di diversi movimenti di sinistra.
L’obiettivo pare essere dunque quello di scoraggiare qualunque manifestazione pubblica del dissenso, facendo apparire desiderabile, perlomeno ai più, il modello di un “quieto vivere” individualista, senza veri momenti di confronto e di aggregazione popolare – fonti di possibili disordini – in un perenne “distanziamento sociale”, eterno, a prescindere dalle esigenze contingenti della pandemia.
Cioè il metodo, da sempre, più funzionale al mantenimento dello status quo e al successo delle classi che sono al potere. Qualunque classe si trovi in quel momento al potere. In un congelamento pressoché totale della mobilità sociale, per una società in cui i poveri resteranno per sempre poveri e i ricchi sempre più ricchi. Nei secoli dei secoli.