Giovedì pomeriggio, con le sue dimissioni annunciate via Facebook, il segretario del Pd Nicola Zingaretti ci ha fatto sapere che dietro quell’aria sempre paciosa e sorridente è capace di scelte nette, improvvise, spregiudicate.
Sul piano personale non è poco, visto che stiamo parlando di un leader che nei lunghi anni di militanza politica (iniziò il suo cursus onorum come segretario dei giovani comunisti romani) si è guadagnato sul campo il soprannome di «saponetta» per l’attitudine a schivare i conflitti. Ma è pochissimo dal punto di vista politico. Quali sono gli obiettivi del clamoroso passo indietro? A chi propone di affidare ora la guida del partito e qual è il ruolo che intende svolgervi nei prossimi mesi?
Su questo, Zingaretti non dice niente. E’ buio totale per gli sballotati elettori del Pd e perfino per i dirigenti a lui più vicini, come Dario Franceschini e Andrea Orlando che a quanto pare non ne sapevano nulla. E’ qualcosa che non promette nulla di buono per quel partito e, fatte le dovute proporzioni, per l’Italia. Il Pd, con il suo 18,7 per cento di eletti alla Camera e il 19 e rotti al Senato, è la seconda forza politica del Paese.
E’ al governo dall’estate di due anni fa e dovrebbe essere l’architrave dell’esecutivo Draghi, cui ha sempre dichiarato un sostegno granitico. E’ un partito che ha sempre fatto della responsabilità il suo fiore all’occhiello. Se resta senza guida e senza strategia è un problema per sé e per gli altri. Eppure non sembra che le dimissioni di Zingaretti, anche per il modo in cui sono state date, possano favorire l’assunzione di una linea politica stabile e condivisa, qualunque essa sia.
L’unica motivazione esplicita offerta dal segretario per la sua scelta è che «nel Pd da venti giorni si parli solo di poltrone». Di questo Zingaretti dice di vergognarsi. Ma, a parte il fatto che per fare politica le poltrone sono strumento indispensabile, come tutti sanno (e quei pochi che non lo sanno lo scoprono appena ne occupano una), quel che manca nella sua dichiarazione è una rivendicazione delle scelte politiche fatte.
Anzi, a ben guardare un riferimento c’è, ma in forma criptica e poco coraggiosa, laddove il segretario uscente parla di «attacchi anche da chi in questi due anni ha condiviso tutte le scelte fondamentali che abbiamo compiuto». Come dire che se ha sbagliato lui hanno sbagliato tutti. Peccato che fosse lui a dare la linea, mentre gli altri doverosamente seguivano.
Qui si trova uno dei nodi fondamentali del travaglio attuale di quel partito: il malumore diffuso verso la gestione zingarettiana (con la fondamentale consulenza di Goffredo Bettini) degli ultimi mesi, caratterizzati prima dal sostegno acritico al governo Conte e poi dalla sua difesa a oltranza nel momento in cui Matteo Renzi ha aperto la crisi. Ragion per cui la nascita del governo Draghi, per quanto si sia cercato di dissimularlo, non può che essere una sconfitta bruciante di quella linea.
Questo per quel che riguarda il passato. Ma è ancor più importante la proiezione di questa situazione nel futuro. A voler tagliare le cose un po’ con l’accetta, l’alternativa è fra un’alleanza stabile e organica con il Movimento 5 Stelle, in una sorta di Fronte Popolare del XXI secolo, e un riformismo di stampo liberale più rivolto verso il centro.
E’ un dilemma che travaglia il Pd ormai da anni e che neppure due scissioni, quella di Bersani «a sinistra» e quella di Renzi «a destra», hanno risolto, perché nessuna delle due ha portato via un numero di dirigenti ed elettori (che semmai se ne vanno silenziosamente ciascuno per proprio conto, ma questo è un altro discorso) così cospicuo da dare al partito una nuova fisionomia.
Di questo si preparava a discutere il Pd prima della mossa di Zingaretti e non pare che adesso il tema possa essere affrontato con maggior libertà o chiarezza. Al contrario. Si potrebbe dire che le sue dimissioni servano proprio, ancora una volta in stile «saponetta», per quanto in modo tortuoso, a evitare quella discussione nel momento in cui i sondaggi danno il Pd al di sotto di dove l’aveva lasciato Renzi nel 2018. Meno se ne parla in questo momento, meglio è per la popolarità del segretario uscente.
Quindi se vi state chiedendo che cosa farà Zingaretti a partire da domani, ovviamente nessuno lo sa. Ma vale la pena di tenere a mente quel che fece Luigi Di Maio dopo la sconfitta rovinosa dei 5 Stelle dell’autunno scorso: un passo indietro, lasciando il fardello sulle spalle del povero Vito Crimi, per poi poter fare meglio i passi avanti della sua carriera politica futura.
Uomini e donne che decidono di dedicarsi alla battaglia delle idee e delle poltrone, anche quando mostrano sentimenti genuini di rabbia o di stanchezza si muovono sempre all’interno delle loro strategie di potere. Parafrasando la frase di Walter Matthau in un famoso film sulla stampa: è la politica, bellezza. Nessuno scandalo, ma è sempre bene ricordarsi come funziona.