Il 3 novembre scorso il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge di riforma costituzionale “Meloni-Casellati” che introduce il c.d. “premierato” nell’ordinamento italiano; abroga la figura dei senatori a vita di nomina presidenziale; impedisce al Capo dello Stato di sciogliere uno solo dei rami del Parlamento; e, infine, fissa alcuni paletti per approvare una nuova legge elettorale per la Camera ed il Senato.
Il disegno di legge in questione presentato in Senato (AS 935) certamente costituisce un sensibile cambiamento ordinamentale, che in qualche modo formalizza, almeno nella parte del “premierato”, ciò che è già nella realtà delle dinamiche istituzionali.
Già a seguito della legge 277/1993 e l’anno dopo, con la nomina a Presidente del Consiglio di Silvio Berlusconi, il corpo elettorale percepiva un mutamento sostanziale del sistema prendendo coscienza che, seppur non formalmente, il sopravanzamento di una coalizione sull’altra determinava, nei fatti, la nomina come Premier del leader della coalizione vincente.
Lo stratificarsi lungo i decenni di queste indicazioni elettorali che si sono imposte, de facto, – senza alcuna copertura costituzionale – sulle scelte dei Presidenti della Repubblica, necessita di una forma legale che lo stabilizzi e lo ufficializzi.
È corretto precisare che questo “movimento nascostamente costituente” è stato interrotto in due occasioni: con il sopraggiungere della nomina a Presidente del Consiglio di Mario Monti in data 16 novembre 2011, a seguito delle dimissioni di Berlusconi l’11 novembre (nonostante avesse ancora la maggioranza parlamentare); durante la XVIII legislatura (2018-2022) con l’affastellarsi di tre maggioranze, di cui le prime due radicalmente diverse fra di loro ma supportanti un Governo guidato dallo stesso Presidente del Consiglio (prima volta in Italia), Giuseppe Conte, mentre la terza espressione di una Große Koalition dante vita ad un Esecutivo con a capo l’ex direttore della BCE Mario Draghi (con il solo partito di Fratelli d’Italia all’opposizione).
In tutte e tre i Governi la leadership è stata rappresentata da una personalità del tutto estranea al Parlamento ed alla competizione elettorale da cui era stato originato.
L’articolato della proposta di riforma costituzionale interviene sugli artt. 59, 88, 92 e 94 Cost., nel modo seguente. Innanzitutto, la figura dei senatori a vita di nomina presidenziale è abolita, rimanendo quella costituita dagli ex Presidenti della Repubblica.
Attualmente il Senato con la loro presenza si differenzia dalla Camera dei deputati in quanto composto non soltanto da soggetti eletti, ma anche da cinque senatori, nominati direttamente dal Capo dello Stato, o in veste di Capi di Stato cessati dalla carica. I primi sono nominati per aver “illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”: il loro compito di porre riflessioni sagge alla Assemblea nel tempo è mutato in una funzione di appoggio squisitamente politico a Governi politicamente friabili e a base parlamentare numericamente debole, al pari della esperienza dell’Esecutivo Prodi (1996-1998).
Il cuore della proposta di cambiamento gira intorno alla indicazione del Presidente del Consiglio direttamente dal corpo elettorale in sede di elezioni generali. L’elettore (senza più alcuna distinzione di età dovendo aver compiuto paritariamente il diciottesimo anno di età) elegge contestualmente senatori, deputati e Presidente del Consiglio, necessariamente un parlamentare.
Si passa dalla prassi della nomina come Premier da parte del Presidente della Repubblica del leader del partito o della coalizione vincente, all’obbligo, sempre da parte del Capo dello Sato, della nomina di colui che ha preso più voti rispetto agli altri candidati Premier competitori.
I Ministri continuano ad essere nominati, su proposta del Presidente del Consiglio eletto, dal Capo dello Stato, che mantiene un ruolo di primaria rilevanza nello scenario istituzionale italiano, pur non assumendo competenze, funzioni e poteri ulteriori come nelle Repubbliche presidenziali e semi-presidenziali.
Da questa modifica scaturiscono a cascata ulteriori mutamenti di non poco momento, quale l’impossibilità dei c.d. “ribaltoni” o “inciuci”.
Al riguardo due percorsi ne impediscono la praticabilità.
La prima: il Presidente eletto e, quindi, nominato, forma un Governo che non ottiene la fiducia dalle Aule; l’Inquilino del Quirinale deve rinnovare l’incarico alla medesima personalità, in quanto eletta dal Popolo, che cercherà di costruire – ovviamente, almeno in parte, con Ministri diversi – un nuovo Esecutivo il cui mancato ottenimento della fiducia determinerà la chiusura della Legislatura anzitempo ed il conseguenziale ritorno al voto.
La seconda: se in costanza di legislatura si avverano le condizioni per la cessazione del Governo nella pienezza delle funzioni (dimissioni, decesso o grave incapacità permanente di ordine fisico o psichico del Presidente del Consiglio; sfiducia sopravvenuta), il Capo dello Stato conferisce di nuovo l’incarico – ove le condizioni lo permettano – allo stesso Premier, oppure, successivamente o in subordine, ad un parlamentare legato alla stessa maggioranza, impedendosi, così, a profili tecnici di essere coinvolti in avventure politico-Istituzionali (Dini, Ciampi, Monti, Conte e Draghi). Sarà compito del nuovo Premier portare a termine e, quindi, rispettare, “le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici” esposti dal Presidente del Consiglio eletto dinanzi alle Camera all’atto di ricevere il voto di fiducia.
Nell’evenienza in cui anche il secondo Governo dovesse cessare per qualsivoglia ragione (sfiducia originale o sopravvenuta, dimissioni, morte o grave e permanente incapacità del Premier), il Presidente della Repubblica convocherà i comizi elettorali.
In poche parole, non possono esservi più di due Governi sorti da una medesima contesa elettorale.
Sono certo che il dibattito dottrinario e giurisprudenziale verterà sul “se” e su “quale tipo di invalidità” potrebbe inficiare i provvedimenti governativi o parlamentari di iniziativa governativa adottati dal secondo Governo o approvati sotto la sua egida, se non in linea con le cennate posizioni ufficiali del precedente; e se con il subentro del secondo Governo i Ministri del primo debbano necessariamente dimettersi, anche se presenti nel secondo.
Quella seguita dal Governo è la via italiana del “premierato” che – a differenza del Primo Ministro inglese e del Cancelliere tedesco che nominano o revocano essi stessi i Ministri, similmente a quanto compiono i sindaci italiani dei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti e i Presidenti delle Regioni nominando o revocando gli assessori – vincola il Quirinale a nominare Premier il parlamentare vincitore della competizione elettorale, Quirinale che mantiene, però, la titolarità della nomina dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio.
Un passaggio particolarmente pregnante si ha con la previsione della legge elettorale in Costituzione. Il Parlamento, nell’adottare la legge elettorale per entrambi i suoi rami, deve rispettare il vincolo imposto dal novellato art. 92 Cost.: “La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati al presidente del Consiglio dei ministri”.
Questa disposizione positivizza la giurisprudenza della Corte costituzionale e, in particolar modo, la sentenza 1/2014 riguardante la legge 270/2005 (c.d. “Porcellum”) e la decisione 35/2017 attinente alla legge 52/2015 (c.d. “Italicum”).
Una legge elettorale, per essere effettivamente democratica e compatibile con i principi sottesi alla Carta, deve permettere, contemporaneamente, la rappresentatività politica della maggior parte degli italiani nelle Assemblee e, dall’altro lato, la possibilità di consentire al Consiglio dei Ministri di governare per cinque anni: tutela del potere legislativo che risiede nel Parlamento come espressione del Popolo sovrano e, allo stesso tempo, tutela del potere esecutivo di cui è titolare il Governo su mandato (diretto ed indiretto) del corpo elettorale; per ottenere quanto or ora detto, le Aule dovranno fissare una soglia minima di voti validamente espressi sull’intero territorio nazionale (presumibilmente non meno del 40%) per poter consentire al partito o alla coalizione prevalente di accedere al premio di maggioranza del 55% previsto nella riforma in esame.
Infine, il Presidente della Repubblica potrà soltanto sciogliere congiuntamente, in via anticipata rispetto alla scadenza naturale quinquennale, la Camera ed il Senato, essendogli impedita la “chiusura” anticipata di uno solo dei due rami, come avvenuto per due volte per il Senato, prima che nel 1963 fosse resa uniforme la durata di sei anni del Senato a quella di cinque della Camera dei deputati.
Colpito dal surreale dibattito su un presunto colpo di mano antidemocratico e fascista (vocabolo oramai abusato e, pertanto, vuoto di significato) del Governo in carica, sottolineo la somiglianza della proposta qui trattata ai sistemi ordinamentali, istituzionali e costituzionali degli Stati membri della Unione europea e del resto dell’Occidente, tutti dotati di forme di Governo caratterizzate dal presidenzialismo, dal semi-presidenzialismo o dal premierato, a partire dal Regno Unito, che già nel 1215 propugnava la Magna Charta libertatum.
A cura del prof. Fabrizio Giulimondi, Preside del Collegio di scienze giuridiche della Superior School di Lublino.