Trump is back. Così titolava il 7 novembre il Financial Times nel commentare l’incredibile ritorno alla Casa Bianca del candidato repubblicano, passato attraverso una sconfitta opaca nel 2020, una persecuzione giudiziaria senza precedenti in patria e una campagna elettorale esplosiva, sia in senso figurato che letterale, in cui ha rischiato di essere ucciso due volte, prima di vincere trionfalmente le presidenziali sia nel voto popolare che nella conquista dei Grandi Elettori. Ma è un ritorno carico di conseguenze per tutto il mondo, dall’Europa, all’Asia, fino al Medio Oriente e che apre nuovi scenari geopolitici di cui l’Italia può cogliere le opportunità, rafforzando il suo ruolo nel complesso scacchiere delle relazioni internazionali.
Il Tycoon proverà a raggiungere un accordo di pace sia in Ucraina che in Medio Oriente ma se in questo caso la strategia che verrà perseguita sembra andare nella direzione di un più convinto appoggio al governo israeliano nella probabile offensiva anti iraniana, che potrebbe puntare al bersaglio grosso dei siti nucleari, stroncando i finanziamenti del regime degli ayatollah ad Hamas e ad Hezbollah, per poi aprire un negoziato per la creazione di uno Stato palestinese demilitarizzato, in Europa Orientale, il compromesso tra Putin e Zelensky pare più difficile perché deve tenere conto di almeno tre fattori: non cedere alla Russia un territorio molto più ampio della penisola di Crimea, se non al costo insostenibile di abbandonare completamente l’Ucraina, non lasciare l’Unione europea con il cerino in mano nella politica di un sostegno militare a Kiev altrimenti insostenibile e, soprattutto, avere la capacità diplomatica di aprire una conferenza di pace che possa condurre ad un trattato che riesca a stabilizzare l’area, scoraggiando nuove guerre nel cuore dell’Europa. Conseguire entrambi gli obiettivi sarebbe un assoluto capolavoro strategico dal valore storico che potrebbe costituire anche un freno alle mire espansionistiche cinesi nei confronti di Taiwan.
Nel sud est asiatico Trump dovrà essere abile a formare una coalizione anticinese imperniata sul Giappone e l’Australia, che provi a staccare l’India dall’influenza e dalla dipendenza economica dal regime di Pechino, verso cui sarà intrapresa con alta probabilità un’aggressiva politica di dazi commerciali.
Ma lo scenario che coinvolge l’Italia più da vicino è ovviamente quello europeo, in cui i rapporti eccellenti tra il Governo Meloni e Donald Trump possono scongiurare la tentazione di costose imposte commerciali sui prodotti del Made in Italy e spingere la nuova legislatura comunitaria verso un’alleanza strategica tra popolari, conservatori e patrioti, che riformi radicalmente il cosiddetto Green Deal, evitando danni incalcolabili per l’industria manifatturiera continentale, dall’automotive, alla componentistica, all’agricoltura, alla pesca, fino all’edilizia.
Anche la riforma della Nato e l’avvio embrionale di una difesa comune europea potrebbero ricevere un’accelerazione dall’Amministrazione americana, convincendo i Paesi più inclini all’austerità ad escludere le spese militari dal nuovo Patto di Stabilità. L’Italia, approfittando della crisi dell’asse franco-tedesco e della debolezza dell’esecutivo laburista britannico potrebbe avviare, con l’appoggio americano, una riforma in senso confederale dell’Unione, che restituisca maggiore sovranità agli Stati nazionali riducendo drasticamente il peso della burocrazia di Bruxelles, che avrebbe voce in capitolo solo nelle grandi questioni non affrontabili dalle singole Nazioni.
In questo senso, rientra il disegno di un forte riequilibrio delle dinamiche della globalizzazione, che negli ultimi 35 anni hanno dimostrato l’impossibilità di una corrispondenza automatica tra il diffondersi del libero mercato e l’affermarsi delle democrazie.
Tutto il mondo occidentale deve perseguire la politica economica del reshoring, che Trump avviò già nel corso del suo primo mandato. Riportare all’interno dei confini nazionali la produzione delle filiere strategiche manifatturiere, industriali ed energetiche può spingere a una riforma radicale della globalizzazione e spingere la Cina, che fece il suo ingresso nel WTO su iniziativa di Clinton e Al Gore tra la fine degli anni ’90 e il 2001, a rinunciare alla leva del dumping commerciale. Ciò potrebbe far rinascere un movimento di rivendicazione di rispetto dei diritti civili e democratici verso la dittatura come nella rivolta di piazza Tienanmen del 1989 e ridurre il suo enorme potere economico sui mercati internazionali.
Dal punto di vista italiano, il ridimensionamento della Russia e della Cina potrebbe dare un forte impulso al Piano Mattei, che, su un piano paritario, punta a far diventare l’Italia l’hub energetico del Mediterraneo e ad accrescere la nostra influenza economica e politica su gran parte del continente africano. Ma dall’Africa al Medio Oriente, fino ai rapporti con la Cina, tutta la politica estera americana necessita di una discontinuità con le direttrici seguite dai democratici fin dagli anni ’90.
Nell’immediato post Guerra Fredda l’amministrazione Clinton sottovalutò colpevolmente la minaccia del terrorismo islamico di matrice islamista, tanto da scatenare un conflitto tra CIA ed FBI sulla linea da intraprendere in seguito alle segnalazioni di intelligence circa il rischio concreto di attentati aerei in terra americana, che sfociò in un sostanziale immobilismo. Anche la Russia di Eltsin non fu accompagnata nel percorso di una possibile svolta democratica prima dell’avvento al potere di Putin, che dopo pochi anni, persa la grande occasione della strategia berlusconiana di Pratica di Mare di avvicinarla all’Occidente con l’ingresso nel G8, preferì rifugiarsi nel tradizionale nazionalismo russo.
Durante la presidenza Obama, poi, l’appoggio alle effimere primavere arabe, la politica di appeasement infruttuoso verso le aspirazioni nucleari iraniane e il via libera alla scellerata operazione francese contro Gheddafi in Libia, provocarono disastri le cui conseguenze paghiamo ancora oggi. La stessa linea è stata seguita negli ultimi anni da Biden che ha abbandonato l’Afghanistan al suo destino e al ritorno al potere dei Talebani, dando un implicito via libera all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e alla strage del 7 ottobre da parte di Hamas con il manifesto intento di far saltare gli Accordi di Abramo, favoriti dalla prima presidenza Trump.
Infine, se gli aiuti finanziari e militari a Kiev erano doverosi nella prima fase, ora è imprescindibile tentare di conseguire un duraturo negoziato di pace. Alla luce di queste riflessioni, le prospettive della seconda amministrazione Trump sono certamente più rosee di quanto i media mainstream si affannano a predire e anche l’Italia può ritagliarsi un grande ruolo nel disegnare i nuovi equilibri geopolitici all’orizzonte.