Dalla presa di Kabul, lo scorso 15 agosto, l’intero Afghanistan è nel caos. Gli afghani o gli stranieri ancora bloccati nel paese che hanno collaborato per gli alleati o per conto delle diverse organizzazioni internazionali hanno lanciato, nei mesi scorsi, un accorato appello affinché si intervenga al più presto per mettere in salvo le loro vite. La ricerca di quelli che, agli occhi dei nuovi padroni, appaiono come i partigiani di uno stato nemico, non esitano ad utilizzare ogni mezzo disponibile per individuare e arrestare tutti quelli che non appartengono alla loro dottrina.
In vista dei continui posti di blocco e in tutte le postazioni di controllo del territorio è una corsa a cancellare ogni traccia di modernità dai propri telefonini: un’app, una mail o un cloud pieno di documenti rappresenta una condanna per chiunque, specie tra i giovani nati vent’anni fa e che non hanno conosciuto le restrizioni imposte prima dal 2001 dai talebani al governo del paese prima della loro caduta. Ma, adesso, il nastro si riavvolge.
Quindi via ad ogni traccia di modernità: messaggi, chat, foto, video e canzoni. Tutto viene cancellato, le impostazioni di fabbrica ripristinate. Si raschia via ogni impronta di compromissione con il passato e si formattano i telefoni, anche con l’aiuto di organizzazioni umanitarie come Human Rights First, una ONG che ha diffuso una guida su come cancellare la propria identità digitale.
Ma la soluzione rischia di diventare peggiore del problema; innanzitutto un telefono completamente vergine insospettirebbe chiunque, e quasi costituirebbe un’ammissione indiretta di colpa, un passato troppo ingombrante custodito in un device e improvvisamente cancellato, un’autodenuncia. L’unica via di uscita prevedrebbe soltanto la distruzione fisica del proprio apparato telefonico.
Ma, nell’era della tecnologia, non basterà probabilmente neppure quello: qualsiasi immagine circolante in rete dove, negli anni passati, il sospettato ha partecipato ad un evento in salsa filoamericana sarà una prova inequivocabile di un coinvolgimento. Una frase, un pensiero o un commento su un social media – custodito nella memoria eterna della rete – rischia di trasformarsi in una condanna a morte. Il trascorso digitale non si cancella mai del tutto.
Senza considerare che la soppressione di ogni legame con il passato ostacolerebbe – qualora mai si riuscisse ad uscire dal paese – la richiesta del diritto d’asilo su suolo statunitense: senza prove di una diretta collaborazione con gli USA difficilmente lo Zio Sam aprirebbe le porte agli esuli.
E poi rimane sempre lo spettro biometrico, di cui LabParlamento ha già dato conto e che in questi mesi sta facendo strage: nella precipitosa fuga dall’Afghanistan l’esercito americano ha lasciato sul campo non solo vettovaglie e altri beni difficilmente trasportabili, ma anche la tecnologia usata in questi anni per il controllo del territorio, tra cui database ricchi di dati personali di migliaia di collaboratori, caduti adesso nelle mani dei ribelli. Nessuno può dire, al momento, se i talebani saranno in grado di usarli, e non si esclude che per compiere tale operazione si chieda aiuto all’intelligence pakistana. Il rischio di venire identificati semplicemente portando in giro il proprio viso, di conseguenza, è tutt’altro che remota.