La campagna in vista del 4 dicembre ha espresso il peggio della politica italiana
Mancano ormai dieci giorni all’appuntamento che da mesi sta monopolizzando l’agenda politica italiana, nonché le attività di Parlamento e Governo: il referendum costituzionale del 4 dicembre.
Com’era già parso chiaro a partire dalla scorsa primavera, la campagna elettorale e il dibattito tra partiti sostenitori del Sì e forze fautrici del No hanno fin qui relegato ai margini il merito della riforma, privilegiando argomenti di propaganda che nulla hanno a che fare con il superamento del bicameralismo perfetto e la revisione dei rapporti tra Stato e Regioni. Infatti, non si può non notare come i protagonisti della scena pubblica abbiano principalmente puntato da un lato su slogan fino a poco tempo fa identificati come antipolitica (si pensi agli appelli a ridurre con il Sì costi e posti della “Casta”), e dall’altro sul ricorso a scenari apocalittici in caso di entrata in vigore della riforma (la presunta “deriva autoritaria” evitabile solo con il successo del No). Tutto ciò, prima del ricorso alla demonizzazione e alla diffamazione degli avversari che pare essersi imposto nelle ultime ore, sconfinando perfino nel campo degli insulti personali.
È difficile non attribuire la responsabilità primaria di questa politicizzazione della campagna referendaria al premier Matteo Renzi, che (qualunque sia l’esito del voto) ha commesso l’errore iniziale di legare il risultato del referendum al proprio futuro politico, finendo per creare i presupposti del clima di incertezza sulla stabilità istituzionale del Paese. Tuttavia, gli oppositori della riforma (tra i quali spiccano senza dubbio Movimento 5 Stelle e Lega Nord) non sono di certo esenti da colpe per lo scarso livello qualitativo del dibattito cui si è assistito da maggio in poi, in quanto il desiderio della “spallata” al Presidente del Consiglio ha finito per prevalere su qualsiasi tentativo di evidenziare i limiti della revisione costituzionale e, di conseguenza, su ogni possibilità di suggerire modifiche condivise da apportare in futuro alla Carta.
Il risultato di queste scelte è stato quello di aver provocato nel Paese, sulle regole fondamentali che dovrebbero essere condivise da tutti i cittadini, una spaccatura difficilmente ripianabile una volta che si sarà consumato l’appuntamento referendario. Come se questo non fosse abbastanza, la campagna in vista del 4 dicembre ha purtroppo dato conferma dell’immaturità della cultura democratica presente in Italia e reso manifesta la sua incapacità di affrontare con serenità discussioni di sistema, senza dover sempre ricorrere a divisioni tra “Guelfi” e “Ghibellini” destinate a non produrre altro che nuove e maggiori tensioni. Se non si è neanche in grado di motivare il proprio appoggio o rifiuto nei confronti di una riforma costituzionale basandosi sull’unica riflessione possibile (il cambiamento proposto è migliore o peggiore dello status quo?), c’è poco da essere ottimisti sulla capacità del nostro Paese di rispondere alle sfide che lo attendono ora e in futuro.