Mancano tecnici preparati in grado di operare efficacemente sui nuovi macchinari iper-evoluti. Uno scoglio da superare al più presto
di Alessandro Alongi
È il «paradosso 4.0»: fabbriche piene di nuovi dispositivi destinati a mirabolanti produzioni, intelligenze artificiali pronte a scovare la più piccola imperfezione del processo produttivo, realtà aumentata in grado di facilitare l’organizzazione in azienda. Ma nessuno sa come far funzionare questi prodigi tecnologici perché non si è ancora pensato a come formare i lavoratori del domani.
L’allarme ricorrente dei teorici dell’arrivo un nuovo luddismo, dove l’automazione e i robot si contrappongono agli esseri umani sostituendo questi ultimi nel ciclo produttivo, generando sempre più disoccupazione, al momento, sembra infondato.
L’innovazione industriale sostenuta da un’attiva politica governativa in tal senso, ha prodotto, accanto ad una modernizzazione dei macchinari, anche un incremento della domanda di forza lavoro specializzata che, al momento, latita. E parte il J’accuse.
Un sistema formativo che non è stato in grado di guidare ed anticipare il cambiamento costa alle aziende 14 miliardi di euro di investimenti, realtà produttive che, stante l’assenza di figure specializzate, adesso rischiano di vedere sfumare gli investimenti programmati.
È per questo che la priorità dei programmi «Industria 4.0», una volta definiti gli incentivi (dall’iperammortamento al credito di imposta, passando per ilpatent box, ovvero la defiscalizzazione dei redditi provenienti dai beni immateriali quali software e knowhow) devono necessariamente riposizionarsi sulla formazione professionale, in grado dieducare tecnici capaci di sovrintendere al funzionamento delle oltre 45 mila nuove istallazioni figlie degli incentivi.
Al momento, nel mondo dell’impresa, è tutto un fai-da-te: come nelle squadre di calcio, i migliori giocatori si ricercano nei vivai, alias gli istituti tecnici superiori. È da queste scuole che arriva, seppur in maniera limitata, una prima boccata d’ossigeno per gli imprenditori, che possono così contare su 8.000 figure specializzate ogni anno. Il confronto con la Germania è impietoso, dove ogni anno i giovani che terminano percorsi di studi iper-specializzati sono dieci volte tanto. Ma è già qualcosa.
I futuri analisti ditecno-dati e gli esperti di cloudcomputing italiani vengono opzionati dalle aziende già negli ultimi anni di scuola, in special modo nei percorsi di specializzazione post-diploma, con risultati sorprendenti: 8 studenti su 10 trovano un impiego immediatamente dopo la conclusione degli studi. Un dato, questo, che indubbiamente deve far riflettere su dove indirizzare i giovani allo studio, e che stride fortemente sulla preferenza scolastica espressa dai nostri studenti, che prediligono maggiormente i licei, il classico sullo scientifico, a discapito di una formazione più tecnica.
Ma rimane ancora aperto il problema della riconversione dei tecnici over 50, abituati a lavorare su tutt’altra tipologia di macchinari e che, al momento, nessuno è nelle condizioni di prepararli adeguatamente ad affrontare le sfide future.
Se da un lato, dunque, il sistema formativo non è in grado di reggere l’aumento esponenziale della domanda di conoscenza specialistica, dall’altro abbondano convegni e seminari sull’industria del domani, eventi che portano poco valore aggiunto alle necessità imprenditoriali di chi è costretto a rincorrere giovani studenti pur di avere qualcuno in azienda capace di dialogare con questi arnesi innovativi. Appunto, un paradosso 4.0.