I social accusati di istigazione all’omicidio. Tante volte si era ipotizzato un ruolo attivo dei nuovi mezzi di comunicazione nella diffusione di brutte pratiche – interiorizzate dai soggetti più fragili – e che spingono le personalità particolarmente deboli a compiere gesti estremi. Ma stavolta c’è la prima sentenza al mondo che accusa i social network di aver spinto al suicidio un’adolescente.
Venerdì scorso la Corte inglese ha stabilito che la colpa della morte della giovane londinese Molly Russel, una quattordicenne che si tolse la vita nel 2017, è da imputare al funzionamento dell’algoritmo dei social che, una volta “compresi” gli interessi degli utenti per determinati argomenti, mostrano continuamente contenuti di analogo tenore, esponendo in particolare soggetti deboli e in precario stato di salute a compiere gesti estremi.
È il caso proprio della giovane Molly che, soffrendo già di ansia e depressione, cercava sul web contenuti drammatici e dolorosi. L’algoritmo, di conseguenza, ha avviluppato la piccola ragazzina all’interno di una “bolla”, mostrandole continuamente argomenti in linea con i suoi interessi, un vero e proprio bombardamento di informazioni tetre, lugubri e fosche, che hanno avuto il risultato di rafforzare in lei il convincimento di farla finita e spingendola a togliersi la vita.
Solo negli ultimi sei mesi di vita, hanno accertato i periti, Molly avrebbe interagito con più di 2.100 post su Instagram avente un solo tema, ovvero l’autolesionismo e la morte, provocando nella già precaria mente della piccola l’angoscia di vivere. Secondo i medici legali la piccola “è morta per un atto di autolesionismo mentre soffriva di depressione e per gli effetti negativi dei contenuti online“.
Il padre di Molly ha accusato i più popolari social di “monetizzare la miseria“. Ian Russell, in particolare, ha accusato Meta (proprietario di Facebook e Instagram) di aver condotto sua figlia verso una “scia demenziale di contenuti succhiatori di vita“,
Uno psichiatra infantile consulente della Corte, il Dott. Navin Venugopal, ha dichiarato apertamente che, dopo aver guardato i contenuti visti da Molly prima che si uccidesse, non è riuscito più a dormire bene per alcune settimane.“Sicuramente tali contenuti l’avranno influenzata e l’avranno fatta sentire senza più speranza” ha concluso lo psichiatra.
Elizabeth Lagone, responsabile delle politiche per la salute e il benessere di Meta, ha riconosciuto che alcuni post e video avevano infranto le linee guida di Instagram, che proibivano la glorificazione, l’incoraggiamento e la promozione del suicidio e dell’autolesionismo. “Siamo dispiaciuti che Molly abbia visto contenuti che hanno violato le nostre politiche“, ha dichiarato la manager.
Tutti adesso si augurano che tale pronuncia rappresenti un punto di svolta per la Silicon Valley. Il processo, infatti, ha messo in luce come le decisioni commerciali e di progettazione delle piattaforme tecnologiche possono provocare tragici danni nel mondo reale, oltre che essere facilmente accessibili a tutti, minori compresi.