La sentenza della Consulta dà alla politica una legge applicabile, ma non la esonera dalle sue responsabilità
Si è finalmente consumato l’evento che, dai giorni successivi al referendum del 4 dicembre, aveva tenuto nuovamente in una situazione di stallo il sistema politico-parlamentare italiano.
Con la sentenza del 25 gennaio sull’Italicum, la Corte Costituzionale ha consegnato nelle mani dei partiti la responsabilità di risolvere, in un senso o nell’altro, le incognite che da mesi gravano sulla durata della Legislatura e sullo scenario in cui dovranno svolgersi le prossime elezioni Politiche. Com’era nelle previsioni, la decisione della Consulta non ha provocato un vuoto normativo nei meccanismi di rinnovo del Parlamento (in caso contrario, sarebbe stato neutralizzato il potere di scioglimento delle Camere in capo al Presidente della Repubblica), e in attesa dell’arrivo delle motivazioni si può ipotizzare che su di essa abbia pesato il precedente della bocciatura del Porcellum nel gennaio 2014, soprattutto per quanto riguarda l’eliminazione del turno di ballottaggio che l’Italicum non vincolava a un minimo di voti ottenuti.
Al momento, si dichiarano favorevoli a un ritorno in tempi rapidi al voto Matteo Renzi e gli esponenti a lui vicini nel Partito Democratico, la Lega Nord e il Movimento 5 Stelle. Sostenitori della linea “elezioni nel 2018” sono invece la minoranza del PD vicina a Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza, Forza Italia (a causa dell’attuale incandidabilità di Silvio Berlusconi) e, seppure con minor convinzione, il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano. A dispetto delle fughe in avanti e delle schermaglie dialettiche cui si sta assistendo in queste ore, per la politica non sarà facile uscire dal vicolo cieco in cui si è relegata con una serie di scelte a dir poco sbagliate. In particolar modo, per il Partito Democratico non sarà indolore “staccare la spina” a un Governo guidato da un suo esponente di primo piano, ma al tempo stesso nessun partito potrebbe presentarsi con disinvoltura agli elettori dopo aver lasciato l’onere di scrivere le regole del gioco alla Corte Costituzionale, chiamata ancora una volta a mettere rimedio alle mancanze del Parlamento. Inoltre, condurre una campagna elettorale aspra (e, sul modello di quella referendaria, povera di contenuti) mentre ai problemi strutturali del Paese si è aggiunta una situazione di emergenza in vaste zone del Centro Italia renderebbe evidente che le esigenze della politica non coincidono con quelle dei cittadini.
Indubbiamente, decisivi per l’affermazione di una delle parti in causa saranno i parlamentari del Partito Democratico non renziani, ma che hanno sostenuto l’ex sindaco di Firenze nei suoi circa tre anni alla guida dell’Esecutivo. Sarà infatti importante come, nelle prossime settimane, si riposizioneranno gli esponenti PD riconducibili a capicorrente come Matteo Orfini, Andrea Orlando, Maurizio Martina e Dario Franceschini, senza i quali Renzi non disporrebbe più di uno stretto controllo sui Gruppi dem di Camera e Senato. A rendere ancor più intricata la situazione, all’attuale impasse si somma l’avvicinarsi del congresso del Partito Democratico, in programma nell’autunno del 2017, in occasione del quale potrebbe consumarsi in modo decisivo lo scontro tra Matteo Renzi e i suoi oppositori interni (domenica 29 gennaio l’ex premier dovrebbe annunciare, durante l’Assemblea PD di Rimini, la composizione della nuova Segreteria del partito).
Di fronte all’importanza delle scelte che saranno compiute nei prossimi mesi, non resta che augurarsi che almeno in questa circostanza siano la ragionevolezza e il buon senso a guidare l’azione dei leader di partito (in tal senso, risultano allarmanti le voci che vorrebbero il Governo pronto a usare la carta delle elezioni anticipate per eludere le richieste dell’Europa in materia di bilancio), e che qualora si vada davvero alle urne nel giugno 2017 almeno lo si faccia con una legge elettorale che garantisca governabilità. Un’ulteriore fase di blocco istituzionale non sarebbe sostenibile, e gli attuali sistemi disegnati dalle sentenze della Corte Costituzionale non permetterebbero a nessuna forza politica di disporre di una maggioranza in entrambi i rami del Parlamento.