I lavori attorno alla Finanziaria si stanno caratterizzando sempre più per critiche in arrivo da ogni dove, che il politico esperto Gualtieri ha gestito, in alcuni casi incassato senza batter ciglio, in altri ancora replicato a dovere. L’uomo Roberto deve invece aver pensato tra sé a più riprese uno sconsolato “chi me l’ha fatto fare”
Tu quoque, Brute, fili mi! Parrebbero essere state queste, secondo le discordanti fonti storiche, le ultime parole di Giulio Cesare quando, tra i suoi uccisori scorse anche il viso – e ancor di più il coltello – del figlio adottivo Marco Giulio Bruto, per gli amici solo Bruto. Una lezione che uno storico (seppur contemporaneo) come l’attuale titolare del Ministero dell’Economia, Roberto Gualtieri, non avrebbe alcun problema a narrare per ore e con abbondanza e dovizia di dettagli.
Ma ancor prima di spiegare, il professor Gualtieri potrebbe sentire, anche letteralmente sulla sua pelle, il triste epilogo del primo imperatore di Roma. Non devono essere infatti settimane dettate dalla spensieratezza quelle che sta trascorrendo l’uomo a capo del Mef; ruolo che non a caso, per quasi dieci anni è stato affidato a profili tecnici e non politici.
I lavori attorno alla Finanziaria si stanno caratterizzando sempre più per critiche in arrivo da ogni dove che il politico esperto Gualtieri ha gestito, in alcuni casi incassato senza batter ciglio, in altri ancora replicato a dovere; l’uomo Roberto invece deve aver pensato tra sé a più riprese uno sconsolato “chi me l’ha fatto fare”.
Le coltellate, metaforiche si intende, sono arrivate in primo luogo dalle parti sociali, chiamate giustamente in causa nella sequenza di audizioni nelle commissioni bilancio e finanza delle camere. Colpi, anche duri, che però rientrano in un certo qual ordine delle cose: sindacati e realtà associative, specie se datoriali, hanno il compito di contribuire all’andamento politico ed economico del Paese e hanno il diritto di farlo con i mezzi e forse anche i toni che ritengono più idonei; spetta poi alla compagine parlamentare e governativa capire se e come assecondare i suggerimenti.
Una seconda ondata di attacchi alla manovra sono arrivati da chi di numeri se ne intende – o così dovrebbe -; i tecnici del Senato hanno parlato di un gettito sovrastimato delle nuove tasse, in particolar modo dei balzelli anglofoni (sugar/plastic/tobacco) per i quali la sovrastima parrebbe oscillare tra 800milioni e 1miliardo di euro; Bankitalia non è stata da meno, dicendo senza mezze misure che le coperture della manovra, per circa tre quarti, sono a carico delle entrate e che la sicurezza, di queste entrate, è ben lontana dall’essere certa.
Attacchi calcolati e in qualche modo preventivati, se non addirittura costruttivi, in una lettura ottimistica. Così come sarà stata messa ampiamente in preventivo la lotta senza quartiere dei partiti (attualmente) di opposizione.
Che il Dl Fiscale prima e la Legge di Bilancio vera e propria poi, si arricchissero di contributi e correttivi nelle stanze parlamentari era dunque cosa nota.
La Lega, da ormai indiscussa capofila delle forze del centrodestra, ha depositato tanti emendamenti al Dl Fiscale quanti i gettoni in cabina per una telefonata interurbana negli anni ’90. Ampliamento della pace fiscale, accorpamento dell’Irap all’Irpef o ancora l’allungamento della cedolare secca per i negozi anche nel 2020 sono solo alcune delle richieste del partito di Salvini mentre una flat tax, parzialmente rivisitata, di natura incrementale, è stata impugnata da Fratelli di Italia. La formazione che una volta capeggiava su tutta l’ala destra del Parlamento e del Paese, ovvero Forza Italia, in carenza di uomini e di idee ha ripiegato su un grande classico del liberismo berlusconiano: l’abolizione della soglia ai pagamenti in contanti.
Ma, ancora una volta, si tratta di un gioco delle parti, di ruoli che nel teatrino politico vanno rispettati. Il carico pesante, il fendente micidiale, la batosta inaspettata che ha fatto diventare gli emendamenti non più un insieme di proposte ma una carica – e neanche dei cento, bensì dei mille e uno – è arrivata dal fuoco amico, dai quattro partiti che dovrebbero – il condizionale è un triste obbligo – rappresentare la maggioranza.
La pattuglia renziana, anche nota come Italia Viva, ha depositato 58 proposte di modifiche sostanziali al Dl Fiscale, che spaziano dal blocco delle aliquote locali all’incremento del fondo di garanzia per le Pmi. I Cinque Stelle, in cerca disperata della verginità perduta, hanno rispolverato le manette – per i grandi evasori fiscali -, ma anche semplificazione dell’Isa con maggior uso di precompilati e ancora il rinvio delle sanzioni per il dispositivo anti abbandono sui seggiolini, così giusto per dare un condimento più vario che insaporisce la minestra. Anche il Pd, in preda a un serio disturbo della personalità, ha depositato qualcosa come 150 emendamenti, dimenticando l’unica misura di sinistra proposta, la riduzione del peso fiscale sul lavoro mentre Leu, quarto partito per peso parlamentare della – nonchiamatelacoalizione di Governo – ha preparato una dozzina di emendamenti, proponendo, in un chiaro momento di nostalgia socialista, la gestione pubblica di Alitalia.
Un’opposizione intestina, una lotta fratricida, pagine capaci di derubricare le faide del pentapartito anni ’80 a una riunione condominiale. Un qualcosa che se Mario Monicelli fosse ancor vivo avrebbe di che riscrivere tre o quattro sequel del capolavoro “Parenti Serpenti”.
E Gualtieri ascolta, respira e dice a più riprese che la manovra può essere migliorata ma i conti devono pur tornare e, nel frattempo, conta i giorni che lo separano da sabato, termine ultimo per depositare gli emendamenti, almeno per il Dl Fiscale. Almeno per adesso.