La spending review non risparmia neanche i partiti. Le donazioni private non decollano e il tesseramento è al palo. I nodi critici da affrontare e le side future della politica
di Alessandro Alongi
Mentre sono ancora vivi i mugugni di molti ex parlamentari vittime del taglio dei vitalizi, chi ancora milita attivamente tra le fila dei partiti deve fare i conti con un’altra bega, ovvero il crollo delle entrate finanziarie. Se n’è accorto, da ultimo, anche il Partito Democratico che, subito dopo l’estate, lascerà la prestigiosa sede di Largo del Nazareno a Roma – ormai troppo costosa – per ripiegare in altro luogo non ancora noto. Tale intervento segue a ruota quello più drastico, ovvero la messa in cassa integrazione di tutti i dipendenti della sede romana. Tutte conseguenze, più o meno dirette, del giro di vite iniziato negli ultimi anni e volto a contenere i costi della politica.
Che la politica italiana costasse troppo era sotto gli occhi di tutti. Per questo già il Governo guidato da Mario Monti operò subito un dimezzamento dei rimborsi elettorali, con un beneficio per le casse pubbliche di circa 90 milioni di euro. L’Esecutivo guidato da Enrico Letta, successivamente, portò a compimento l’opera, eliminando progressivamente i rimborsi elettorali e prevedendo un diverso sistema di sostegno, introducendo la scelta volontaria di ogni contribuente in sede di dichiarazione dei redditi se versare o meno il 2×1000 ad una formazione politica, insieme ad un sostanzioso incentivo (detrazione del 26%) sulle erogazioni liberali ai partiti. Oggi tale situazione – basata unicamente sulle donazioni volontarie alla politica – inizia a mostrare i primi cedimenti.
La cassa piange. A voler estremizzare la lettura dei bilanci dei partiti è questa, in estrema sintesi, la situazione in cui versa finanziariamente la politica di oggi. Diminuisce la fiducia nella classe parlamentare e, di pari passo, calano vistosamente anche le entrate. Si riducono le donazioni private, e anche le elargizioni degli eletti ai propri partiti non stanno messe bene. L’80% delle donazioni alle formazioni politiche giunge dai singoli eletti, mentre la rimanente parte è opera di privati. Secondo i dati del MEF nel 2016 soltanto il 3% dei contribuenti ha effettuato la scelta del 2×1000 in favore di qualche schieramento politico, per un totale distribuito di (soli) 5 milioni di euro.
Se è vero che da una parte i soldi privati scarseggiano, dall’altra la macchina politica può contare sempre sui generosi finanziamenti ad opera dei Gruppi parlamentari di Camera e Senato, valutati intorno ai 52 milioni di euro ogni anno (260 milioni nel corso della legislatura). Di questi, circa 40 milioni ogni anno vengono impiegati dai partiti per pagare il proprio personale di stanza a Montecitorio e Palazzo Madama, insieme ad una residua parte spesa per attività istituzionale. Di contro, crolla la spesa per il personale posto alle dirette dipendenze dei partiti, con una contrazione del 53%, come riportato dall’analisi di Openpolis sull’argomento.
Come se l’emorragia non bastasse, alla crisi finanziaria della politica si aggiungono le parole del vicepremier Luigi Di Maio che, in piena campagna elettorale, ha annunciato la volontà di abolire il 2×1000 così da creare «una terza via tra finanziamento pubblico e strapotere delle lobby private: una politica senza soldi, nella quale gli eventi sul territorio e le campagne elettorali vengono finanziate da microdonazioni completamente volontarie dei cittadini». Parole che accrescono la preoccupazione dei singoli tesorieri e montano il dibattito, mai sopito in verità: è giusto o no che lo Stato contribuisca ai costi della politica?
Da una parte i sostenitori di un intervento pubblico nei portafogli dei partiti è convinto che in assenza di una contribuzione statale i partiti diventerebbero subalterni ai privati, «teleguidati» dai grandi gruppi industriali o dai «poteri forti» i quali rimarrebbero gli unici a sostenere economicamente le diverse fazioni, chiedendo di sicuro qualcosa in cambio. I detrattori, invece, continuano a ripetere il mantra francescano degli ultimi anni, una politica povera e basata unicamente sul merito, quasi un ritorno allo Statuto Albertino con annesso divieto di retribuire le cariche elettive, una missione di vita insomma.
Il problema non è nuovo e il dilemma sarà sempre d’attualità. Lo fu in Assemblea costituente, con un braccio di ferro tra Piero Calamandrei e Roberto Lucifero sull’opportunità o meno di remunerare partiti e parlamentari, sino alla «proposta Terracini», ovvero agganciare l’indennità dei politici allo stipendio medio degli italiani. Allora però si riteneva che i partiti svolgessero un ruolo decisivo per determinare la politica nazionale, cosa oggi – forse – del tutto vuota di significato.