Un recente caso di cronaca ha riportato in auge vecchi discorsi sulla legittima difesa che avevano occupato le pagine dei giornali e monopolizzato i commenti dei politici qualche anno fa. La vicenda sembra fatta apposta per rinfocolare le polemiche: un immigrato con problemi psichici, dopo alcune intemperanze in strada in un paese lombardo, viene ucciso da un colpo di pistola esploso dal locale assessore alla sicurezza leghista dopo una breve colluttazione.
Quasi scontato, dunque, che abbia improvvisamente ripreso vita la contrapposizione tra chi afferma che – a determinate condizioni – la difesa è sempre legittima e chi sottolinea la differenza tra reagire ad un’aggressione e farsi giustizia da sé.
Mentre è doveroso tacere sulla soluzione giuridica dell’episodio, che deve essere affidata agli organi competenti, l’occasione può servire ad alcune riflessioni, con una premessa: come spesso accade, la sicurezza con cui politici e comuni cittadini si fanno strada (spesso facendone strage) tra commi e sottigliezze giuridiche può trarre in inganno e rischia di far dimenticare che ogni volta che si parla di leggi e di diritti si entra in un mondo estremamente tecnico, che andrebbe manovrato con molta cura.
Conviene, dunque, partire dall’inizio ed avere sott’occhio i principi del diritto penale come un filo di Arianna, per non perdersi. Il nostro codice prevede che, a determinate condizioni, chi commette un reato sia giustificato e dunque non debba essere punito: si pensi al pubblico ufficiale che spara all’attentatore che sta per uccidere degli innocenti o al chirurgo che, nell’eseguire un intervento, deve necessariamente provocare ferite al paziente (anche la semplice incisione con il bisturi è tecnicamente una lesione, e persino la puntura di anestesia del dentista).
Tra le cinque cause di giustificazione previste dal nostro codice, la più importante è senza dubbio la legittima difesa, grazie alla quale chi compie un reato perché costretto dalla necessità di difendersi da un’aggressione ingiusta altrui va esente da punizione. E’ dunque lecito, a certe condizioni, difendersi quando si subisce un reato, commettendo anche, se necessario, a propria volta un reato o un’azione che normalmente sarebbe illecita.
E’ però intuitivo che non basta subire un atto ingiusto per poter reagire illimitatamente: non è consentito uccidere qualcuno, ad esempio, perché ci taglia la strada in macchina o ci ha truffato del denaro. La difesa, come è evidente già da queste prime considerazioni, non è “sempre legittima”: lo è nei limiti previsti dall’articolo 52 del codice penale.
Il più importante di questi limiti è la proporzione tra l’offesa e la reazione. In parole povere, di fronte a un’aggressione al patrimonio non si può reagire mettendo in pericolo la vita altrui. Pertanto, con buona pace di chi afferma il contrario, non si può sparare al ladro che ti entra in casa per rubare: non esiste alcun diritto illimitato di difendere i propri beni a costo della vita o dell’incolumità altrui.
Questo principio è stato ripetutamente messo in discussione, negli ultimi venti anni, da una consistente parte della classe politica che ha posto l’accento su una dichiarata emergenza criminale conseguente alle aggressioni di ladri e rapinatori nei domicili privati, concludendo che occorresse fornire al proprietario aggredito il diritto di difendersi lecitamente, senza limiti.
Numeri alla mano, l’emergenza predetta pare non esistere o va comunque molto ridimensionata: secondo le statistiche pubblicate dal Senato nell’ottobre del 2018 i procedimenti per legittima difesa si possono contare sulle dita di quattro mani (15 procedimenti pendenti al GIP / GUP negli anni dal 2013 al 2016, sebbene su campione parziale).
Emergenza o meno, nel 2019, il legislatore è intervenuto ugualmente su quella che è stata presentata come una sorta di emergenza nazionale. Durante i lavori parlamentari messi a disposizione del Ministero della Giustizia relativi all’anno 2017, in quell’anno risultavano iscritti nei tribunali italiani solo 14 procedimenti “contenenti l’articolo 52 c.p.” (9 davanti al gip/gup e 5 in dibattimento); quelli definiti sono stati altrettanti (8 davanti al gip/gup; 6 in dibattimento).
Sempre in quell’anno, risultavano iscritti nei tribunali italiani solo 12 procedimenti “contenenti l’articolo 55 c.p. (eccesso colposo) limitatamente all’art. 52 c.p. (legittima difesa)” (8 davanti al gip/gup; 4 in dibattimento); i procedimenti definiti sono stati altrettanti (8 davanti al gip/gup; 4 in dibattimento). Si potrebbe obiettare che ciò che conta non sono i numeri, ma la percezione sociale dell’emergenza; ma viene da chiedersi quanto questa percezione sia stata creata, più o meno volontariamente, ad arte, a fronte di numeri oggettivamente esigui. Il discorso ci porterebbe però troppo lontano e probabilmente fuori tema.
Più pertinente sembra un’altra considerazione: non è sempre facile capire le intenzioni di chi entra, quasi sempre di notte, in una casa che non è la sua, magari armato. Sono tanti i casi di persone non solo rapinate ma anche picchiate e persino uccise, a scopo di rapina o per mille altri motivi. Un’aggressione di questo tipo, beninteso, renderebbe legittima anche una reazione violenta: sussisterebbe la proporzione tra offesa e difesa. Dunque, tutto dipende dalle intenzioni dell’aggressore e dalla capacità (e dalla freddezza) dell’aggredito di comprenderle per poter apprestare una difesa proporzionata.
Ecco perché, secondo alcuni, sarebbe necessario stabilire per legge che ogni aggressione che avviene nel proprio domicilio rende la difesa sempre legittima: non si può imputare a chi è aggredito dentro casa sua di avere sbagliato, nella concitazione del momento, la valutazione delle intenzioni di qualcuno che è comunque in torto, perché sta violando con intenzioni illecite il domicilio altrui.
La norma sulla legittima difesa è stata dunque modificata due volte negli ultimi anni: il doppio intervento si è reso necessario perché, nonostante le intenzioni dichiarate, la prima modifica non aveva reso la difesa del proprio domicilio “sempre legittima”, a riprova che le leggi e il diritto sono materie altamente tecniche e legislatori non ci si improvvisa facilmente.
Cercando di non essere troppo tecnici: la riforma del 2006 aveva sancito che in caso di aggressione nel domicilio altrui non vi era bisogno di proporzione tra offesa e difesa, sicché, si diceva, anche in caso di aggressione alla proprietà si poteva reagire attaccando l’incolumità dell’aggressore. In altri termini, se mi entri in casa per rubare posso spararti.
La modifica non ha funzionato, perché, come da subito tutti i giuristi hanno notato, non basta dichiarare di avere eliminato la sproporzione se rimane il requisito della necessità di difendersi. Per sparare ad un altro impunemente occorre che questa condotta sia necessaria ad evitare l’aggressione; e la necessità deve essere ravvisata solo in presenza di un’aggressione alla incolumità dell’aggredito e non ai beni, altrimenti la norma diviene incostituzionale. Insomma, nulla di fatto.
Nel 2019 è dunque intervenuta la seconda modifica all’articolo 52 del codice penale che ha previsto una “presunzione di necessità”: chi entra in casa mia può uscirne morto, come disse senza troppi giri di parole un politico dell’epoca a commento della nuova riforma. Ma ancora una volta la pentola è stata fatta senza il coperchio: in concreto, che vuol dire che la difesa nel domicilio si presume necessaria?
Se una persona spara e uccide, perché non sia sottoposto a punizione occorrerà pur sempre un processo ed una sentenza di un giudice che accerti la legittimità della sua condotta (altrimenti di fronte all’aggressore rimasto ucciso chi dovrebbe dire: “è tutto a posto, non apriamo nemmeno le indagini”? il maresciallo o il poliziotto di turno intervenuto sul posto?) e questa verifica non potrà che basarsi sui criteri dell’articolo 52 che sono rimasti in vigore: la necessità di difendersi e la difesa da un’aggressione rivolta all’incolumità.
La “presunzione di necessità” non è una regola attuabile perché non risponde a nessuno dei principi del nostro ordinamento e calata nell’articolo 52 senza alcuna armonizzazione con il resto delle regole esistenti diviene, di fatto, inattuabile. Ancora, perché la reazione sia legittima occorre che l’aggressione sia in corso e non sia terminata. Il perché è intuitivo: una cosa è sparare a qualcuno che ti sta aggredendo, per impedire che la sua azione sia portata a conseguenze ulteriori, altra cosa è sparare a chi ti ha già aggredito e si sta allontanando. La prima azione è sicuramente a fini di difesa, la seconda semplicemente un gesto dettato dall’ira, per quanto comprensibile.
Ultima notazione, a margine delle riflessioni fin qui compiute: i tentativi di ampliare la legittima difesa di cui si è detto sono sempre stati limitati al caso dell’aggressione nel domicilio, poiché si basavano sul presupposto – condivisibile o meno che sia – che occorresse apprestare una tutela rinforzata a chi subisce attacchi nel luogo dove custodisce i propri beni, i propri affetti, come se la casa fosse un’estensione della propria personalità.
Al di fuori di questi luoghi, nessuno ha mai messo in discussione né ha mai pensato di abolire i limiti della legittima difesa. Anche agli occhi di quella parte politica fieramente sostenitrice della necessità di difendersi senza dover subire processi, una cosa è armarsi contro chi ti entra in casa, altra cosa girare per strada con la pistola carica in tasca (magari con il “colpo in canna”, chiaro sintomo della volontà di non usare l’arma solo per spaventare eventuali aggressori ma, all’occorrenza, per colpire). O almeno, finora era così.
Si può acquisire il porto d’armi e detenere legittimamente una pistola e persino portarla in giro; ma occorre essere ben consapevoli dei limiti della legittimità di tale uso e del rischio che un superamento, anche accidentale, di tali limiti espone la collettività a rischi mortali e chi usa l’arma alle conseguenze penali della sua condotta.