Il cantiere previdenziale è sempre aperto tra proclami, falsi miti e cambiamenti annunciati ma mai compiuti. Ecco perché dal 1995 la riforma delle pensioni rappresenta lo scoglio più grosso per ogni governo
di Alessandro Alongi
«Cambiare le pensioni» è lo slogan che, in assoluto, più si accompagna ad ogni cambio di governo (sovente seguito da «…e dare lavoro ai giovani»). Non ha fatto eccezione, naturalmente, nemmeno l’esecutivo di Giuseppe Conte che, accompagnato dai due vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio, hanno messo nero su bianco (su un apposito contratto) il caposaldo dell’esperienza di Palazzo Chigi: abolire la riforma Fornero e dare vita ad una nuova riforma previdenziale, le cui caratteristiche sono in via di definizione. Un film già visto, direbbe qualcuno, stanco forse degli annunci diffusi negli anni, dei tanti interventi in materia previdenziale a spizzichi e bocconi.
Se però, da un lato, il cavallo previdenziale viene cavalcato da ogni parte politica per stuzzicare gli appetiti elettorali dei cittadini, dall’altro ogni intervento che abbia a che fare con il riordino del sistema pensionistico rappresenta da sempre la riforma più difficile da attuare. E mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata: tutti vogliono una riforma, nessuno è in grado di farla e, in assenza di interventi, si avvicina il precipizio legato all’aumento delle aspettative di vita che spingono al rialzo la spesa futura.
In termini analoghi si è espressa giorni fa la Corte dei Conti nel Rapporto 2018 sul coordinamento della finanza pubblica presentato alle Camere. I giudici contabili evidenziano come nel 2017 la spesa per prestazioni sociali in denaro è cresciuta dell’1,7%. Secondo la stessa relazione, nelle nuove proiezioni il rapporto spesa per pensioni/PIL aumenta (rispetto alle valutazioni del Def 2017) tra i 2 e i 2,5 punti percentuali intorno al 2040, con un rapporto debito pubblico/PIL in drastica risalita di circa 30 punti nel 2070. Numeri impietosi che, a dire della stessa Corte «spinge a ritenere che sono stretti, se non del tutto esauriti, gli spazi per ulteriori attenuazioni degli effetti correttivi della legge [Fornero], a meno di un ripensamento complessivo del sistema».
E per ripensare complessivamente al sistema non c’è altra regola che non quella del buon padre di famiglia: aumentare le entrate (alias nuove tasse) o diminuire le spese (taglio delle prestazioni).
A partire dalle radicali trasformazioni degli anni Novanta attraverso le leggi Amato e Dini, la strada obbligata percorsa da tutti i successivi governi è stata quella di tamponare più che di riformare, arrivando sino alla brusca correzione effettuata dal Governo di Mario Monti con la vituperata riforma previdenziale, cul de sac nel quale la politica oggi è intrappolata.
Le ragioni sono evidenti a tutti. Riformare il sistema pensionistico costa e, in tempo di vacche magre e coperte corte, è sempre più difficile allocare ulteriori risorse su una posta di bilancio che già oggi pesa per il 16,3% del PIL (media UE 11,5%). Ogni minimo ritocco, se non opportunamente ponderato, rischia di creare qualche problema con Bruxelles, visti i rigorosi vincoli di bilancio che la Commissione detta all’Italia.
Superare la legge Fornero (magari con la re-introduzione dell’ambita «quota 100») secondo l’INPS avrebbe un costo tra 4 e 14 miliardi di euro all’anno. Decisamente troppi per un bilancio dello Stato che ogni anno è costretto a scongiurare prioritariamente l’aumento dell’IVA (intervento che da solo assorbe risorse per 12,4 miliardi di euro), rimanendo con ben poco da distribuire per altri interventi, con buona pace del reddito di cittadinanza tanto caro al M5S (costo stimato: dai 15 ai 30 miliardi) o alla flat-tax sostenuta dal Carroccio (costo stimato: 46 miliardi).
La via è ben nota e parte dalla consapevolezza che le politiche pubbliche dell’oggi influiscono sulla spesa del domani. Per questo, se davvero si volesse traguardare una riforma, la strada obbligata sarebbe quella di razionalizzare la spesa pubblica (attuando una vera spending review), incentivare l’emersione del lavoro irregolare, favorire un aumento del tasso di natalità, gestire in maniera equilibrata i flussi migratori e, perché no, applicare un contributo di solidarietà alle pensioni più generose (al netto dei giudizi della Corte Costituzionale che già in passato si era espressa in favore delle c.d. «pensioni doro»).
Tutte cose in gran parte impopolari, ma l’aritmetica non perdona. E la notte prima degli esami, siano essi a Bruxelles o a conclusione dell’esperienza di governo, nessuno potrà difendersi dicendo «la matematica non sarà mai il mio mestiere».