Il Novecento ci aveva abituati a un’idea di stato totalitario dall’aria militarista, arcigna e feroce: l’assalto delle truppe di Pinochet al Palazzo della Moneda, per fare fuori il presidente Allende, i carri armati cinesi di Piazza Tienanmen o quelli russi durante la primavera di Praga, il passo dell’oca dei soldati hitleriani, i manganelli e l’olio di ricino delle squadracce fasciste.
A questa violenza militaresca, si univa anche un lavoro sottotraccia di spionaggio, fatto grazie a una rete di delatori, a una capillare e ben numerosa polizia segreta, costretta a operare di nascosto, per piazzare microfoni e cimici negli uffici e nelle abitazioni delle persone sospette. Una rete di spie, che si muoveva nell’ombra, per rapire e far sparire i dissidenti, come accadde ai figli delle donne argentine di Plaza de Mayo.
Però, come ci hanno insegnato da sempre i più importanti autori di romanzi gialli, il modo migliore per operare davvero in segreto e non farsi mai scoprire da nessuno, è quello di fare tutto alla luce del sole, piazzando le prove dei propri misfatti sotto gli occhi di tutti, in modo talmente visibile che a nessuno possa mai venire in mente di cercare proprio lì “l’arma del delitto”. In modo da ottenere, paradossalmente, la patente di “insospettabili”.
È una lezione che il totalitarismo 2.0 del ventunesimo secolo, pare avere imparato benissimo. Perciò, se la rete di spie della Stasi – la polizia segreta della Germania dell’Est – fatta di centinaia di migliaia di arcigni e nascosti delatori, è stata liquidata e mandata in pensione alla fine del secolo scorso, una rete ben più efficace ha finito per sostituirla. Una rete con miliardi di adepti, che non vestono più delle divise verde militare e non sanno nemmeno di essere degli agenti segreti.
La nuova Stasi, la nuova Ovra, il nuovo Kgb, non piazza di nascosto microspie. Non ne ha più bisogno. Le proprie informazioni le ottiene spontaneamente, da ciascuno di noi, volontariamente, entusiasticamente. Non servono dunque i carri armati, né l’olio di ricino, quando a fornire una messe gigantesca di dettagli, utili al controllo capillare della popolazione, ci pensiamo noi stessi, postando sui social la foto della carbonara cucinata oggi, facendo un acquisto via web, o mandando un messaggio a tutti i nostri amici, augurando loro un “buongiornissimo caffè”.
Gli aspetti più caratterizzanti di questo innovativo e inquietante meccanismo, quelli che lo rendono diabolicamente perfetto, praticamente invincibile e tecnicamente irreversibile, sono due. Il primo, è che non ci troviamo più di fronte a un “nemico esterno”. A differenza di quanto temeva Orwell – l’autore di “1984” – nelle dittature 2.0 del ventunesimo secolo, non c’è nessun “Grande Fratello”, nessun cattivo ben identificabile, nessun Grande Vecchio. Ci sono solo dei miliardi di “Piccoli fratellini”, ovvero ciascuno di noi, a raccogliere e fornire spontaneamente dati utili al meccanismo.
La seconda caratteristica è che, se un tempo ogni persona aveva il timore di essere spiata, oggi non solo quel timore non c’è più, ma c’è addirittura la speranza che ciò avvenga. Per capirlo meglio, ci basti pensare a quanto restiamo delusi quando un nostro post su Facebook non ottiene nemmeno un like.
Quanto siamo tristi se quel nostro post non viene letto, rilanciato, condiviso, una, dieci, mille volte? Dunque, inconsapevolmente, il nostro scopo è proprio essere visti – e di conseguenza spiati – nel modo più ampio e totale possibile. Il controllo delle nostre vite, non è più un detestabile pericolo, ma un desiderabile obiettivo.
Sappiamo bene che ogni dato che noi forniamo via web, sui social, attraverso i nostri acquisti on line, facendo ricerche coi nostri pc, mostrando dal nostro smartphone il biglietto di seconda classe Roma-Milano al controllore del treno, inviando un cuoricino e uno smile al nostro partner, transita sempre in una enorme rete interconnessa, attraverso migliaia di server sparsi in tutto il mondo, che finiscono per incrociare quei dati, per motivi a volte leciti e a volte molto meno leciti, come dimostrò Edward Snowden nel 2013.
Snowden è un informatico statunitense, già collaboratore dei servizi segreti americani. Una decina di anni fa, pensò bene di svelare al mondo quella grande rete di controllo, attraverso cui ogni piccolo dettaglio delle nostre vite, viene sistematicamente controllato, incrociato, analizzato, per mezzo di algoritmi capaci di rielaborare ogni dato. Di fronte a quella denuncia, la CIA ammise la veridicità di quanto dichiarato da Snowden e si limitò ad accusarlo di alto tradimento, per avere svelato informazioni riservate, segreti di Stato, costringendolo così a fuggire all’estero.
Due anni dopo Snowden, ci provarono anche i più importanti sociologi contemporanei a farci aprire un po’ gli occhi. Zygmunt Bauman e David Lyon, pubblicarono infatti, nel 2015, un libro intitolato “Sesto potere: la sorveglianza nella modernità liquida”. In quell’importante e assai rivelatore saggio, i due autori portavano avanti alcune tesi, relative all’attuale società del controllo informatico, che vado ora ad elencare.
1 – Le nuove forme di controllo politico e sociale, non hanno più le caratteristiche di una sorveglianza arcigna, ma assumono un aspetto leggero e spesso divertente, che passa attraverso lo spettacolo e la pubblicità, il consumo e l’intrattenimento.
2 – Al centro dell’attenzione dei sistemi di sorveglianza non ci sono più le persone in carne e ossa, come avveniva nei totalitarismi del novecento, bensì i loro doppi elettronici, cioè i dati informatici che quelle persone inviano.
3 – L’obiettivo del sistema di controllo, non è sapere cosa facciamo, per punirci in caso di comportamenti illeciti, bensì poterci inquadrare in categorie, basate sui nostri gusti, categorie che sono poi in grado di determinare a priori le informazioni e gli stimoli che ci verranno poi forniti, il nostro cammino di consumatori e cittadini, guidando e condizionando le nostre scelte future.
4 – La costruzione di questo meccanismo non è imposto con metodi e sistemi coercitivi, ma procede con la collaborazione spontanea e spesso entusiastica delle sue vittime, cioè di tutti noi.
5 – A tale fine, ogni forma di esibizionismo viene incentivata socialmente. L’esibizione pubblica, anche di cose molto private, viene premiata come una virtù, o presentata come un dovere, per stimolarci a fare di noi stessi una merce in perenne esposizione, un oggetto da rendere altamente desiderabile. La seduzione, finisce così per sostituire la polizia come arma strategica del controllo.
Dunque, per Bauman e Lyon, il nuovo totalitarismo ha smesso di utilizzare le modalità punitive conosciute in passato. Il nuovo potere totalitario non usa più i carri armati, né erige confini e barriere, cose che vengono anzi considerate come ostacoli da superare. Esso vuole accogliere e raggiungere tutti e perciò, a tale scopo, s’impegna affinché tutti siano motivati a esporsi volontariamente al suo controllo, a cercarlo anziché a sottrarvisi, come avviene attraverso il meccanismo dei social e, in genere, attraverso il web.
L’uscita di “Sesto potere”, con le sue inquietanti tesi, provocò, com’era ovvio, un accesissimo dibattito nel mondo accademico. Un mondo accademico che, dopo un’attenta analisi, condivise in larga misura le teorie portate avanti da Bauman e da Lyon. Peccato solo, che quel dibattito accademico non si sia trasformato anche in un dibattito pubblico, capace di coinvolgere tutti i cittadini e sia rimasto una piccola discussione di nicchia, confinata nelle aule delle università, nei convegni, nelle riviste specializzate, aperta a pochi intellettuali.
Quel che è certo, è che, comunque la si pensi, non stiamo parlando di ipotesi sortite dalle fantasiose menti di qualche fanatico e incolto complottista, bensì di ricerche puntuali e approfondite, elaborate dai più accreditati studiosi contemporanei, confermate anche da organi ufficiali governativi, quale è ad esempio la CIA, come avvenuto in seguito alle denunce presentate da Edward Snowden.
Dunque, è ormai noto che i click che immettiamo sul web ogni giorno, vengono rimixati e utilizzati per mille scopi, finendo per esercitare un’influenza decisiva sulle nostre vite. I nostri dati diventano, sistematicamente, oggetto di analisi statistiche, che servono a prevedere i nostri comportamenti futuri. Sulla base di tali previsioni, attraverso sofisticate strategie di marketing, veniamo poi incasellati in categorie di consumatori, o in categorie politiche, schedati come cittadini buoni, oppure inutili, o addirittura cattivi, a cui fornire o non fornire servizi, informazioni, premi, incentivi.
Non a caso, Lyon e Bauman nel loro libro, finivano spesso per citare, come esempio e premonizione della nostra società, il film di fantascienza “Minority Report”, quello in cui il poliziotto protagonista puniva non i crimini commessi dai malviventi, bensì i crimini “ipotetici e futuri”, che si prevedeva sarebbero potuti avvenire, sulla base dei dati a disposizione della polizia. Un vero e proprio “processo alle intenzioni”, detta in parole semplici.
In questo inquietante quadro d’insieme, la privacy, ormai, non è più soltanto minacciata, ma è diventata addirittura un grave difetto sociale. Lo dimostrano le reazioni spontanee, quelle che sorgono nella maggior parte dei casi, quando si affrontano questi problemi. Ad esempio, vi sarà sicuramente capitato di sentirvi rispondere da qualcuno, a cui ponevate il problema del possibile controllo informatico dei nostri dati: “Ma che m’importa? Mica ho nulla da nascondere, io”.
A prima vista, non risulta subito evidente quanto ci sia di terrificante in una risposta così. Eppure, essa equivale a dire che, se qualcuno ci tiene alla propria riservatezza, vuol dire che certamente ha uno scheletro nell’armadio e che ha commesso qualche crimine. È la prova di una mentalità del sospetto, inconsapevole e terribile, che alimenta anche la tendenza alla delazione. Infatti, pur di non essere classificati anche noi fra i sospettati, siamo spesso disposti a puntare il dito contro gli altri. Chiunque altro.
È esattamente il meccanismo psicologico usato dai regimi totalitari. Quello raccontato anche da film come “Le vite degli altri”, una pellicola ambientata nella Germania dell’Est, ai tempi della Stasi. Fortunatamente, ai tempi della Stasi, il fattore umano poteva bloccare il meccanismo di delazione. Ogni spia, che era anche un essere umano, poteva a un certo punto commuoversi, cambiare idea, solidarizzare con le vittime, rifiutarsi di proseguire nelle proprie accuse, depistare le autorità, proprio come avveniva in quel film.
Oggi, che a spiarci e ad analizzare i nostri dati, non sono più delle spie in carne ed ossa, bensì degli algoritmi, non abbiamo nemmeno quella speranza.