Per migliorare la prossima generazione di sblocco del telefono con riconoscimento facciale, il colosso Usa offre pochi dollari per analizzare il viso di persone scelte a caso. Esperimento riuscito grazie alla scarsa educazione al valore dei propri dati personali
A volte certe facce di bronzo non valgono neppure pochi centesimi, ma nella maggior parte dei casi un bel grugno può servire a guadagnare. Piccole cifre, beninteso, ma pur sempre qualcosa. Google, secondo indiscrezioni sempre più insistenti, sta conducendo una campagna negli Stati Uniti finalizzata a catturare l’espressione visiva di alcune persone e, grazie ad un sistema di intelligenza artificiale, studiarne le caratteristiche da applicare ad una nuova generazione di smartphone, prossimamente sul mercato.
A chi sceglie di sottoporsi a tale esperimento vengono richiesti solo pochi minuti di tempo in cambio di una modestissima ricompensa: 5 dollari. A tanto vale, secondo Big G, il patrimonio di dati che è possibile estrapolare dal volto di un individuo scelto a caso.
Non solo per la ricompensa economica, ma soprattutto per l’oscurità del trattamento dei dati personali, sta facendo discutere la sperimentazione del gigante di Mountain View, intenta in questi giorni a raccogliere quante più facce per calibrare al meglio il sistema di riconoscimento facciale che sarà attivo sui telefoni di prossima generazione. Bocce cucite, intanto, a Googleplex, il quartier generale di Google. In quanto a tali esperimenti il celebre motore di ricerca è in buona compagnia. Qualche anno fa è stato il turno di Amazon, rea di aver offerto una carta regalo di 25 dollari a chi fosse stato disposto a farsi scannerizzare il corpo, così da migliorare il sistema che rifinisce le taglie dei vestiti in vendita sul sito di e-commerce.
«Imago anima vultis». Se è vero, come diceva Cicerone, che il volto è lo specchio dell’anima e gli occhi ne sono rivelatori, di certo la propria immagine non può essere svenduta. La modalità di approccio nei parchi newyorkesi utilizzata da Big G è piuttosto banale, come raccontano diverse persone che hanno ricevuto tali lusinghiere attenzioni: «Ciao, lavoro per Google e stiamo raccogliendo dati per migliorare la prossima generazione di sblocco del telefono con riconoscimento facciale». Il prescelto, se non fugge prima e sceglie di aderire alla sperimentazione, verrà invitato a guardare all’interno di una scatola di media grandezza, fissando un punto imprecisato della custodia (al cui interno, con buona probabilità, si nasconde il prototipo del nuovo telefono). Una volta trascorsi 5 minuti arriva la (tanto attesa?) ricompensa.
Gli esperti hanno provato a dare una possibile spiegazione del processo, supponendo che Google usi tali dati per addestrare una rete neurale così da saper riconoscere cosa sia un volto. Se non è fantascienza poco ci manca.
La cosa sorprendente è la scarsa percezione delle problematiche privacy che tale sperimentazione impone. Che cosa succede, in effetti, all’immagine dei volti? Quasi nessuno sembra chiederselo, o forse a nessuno interessa. «Quando ho iniziato a pensare a Facebook nella mia cameretta di Harvard, in tanti si chiedevano: “perché mai dovrei mettere le mie informazioni online? Perché dovrei avere un sito personale?”. Poi è iniziata l’esplosione dei blog e di tutti gli altri servizi che permettono di condividere informazioni online. Le abitudini sociali evolvono nel tempo» dichiarava Mark Zuckerberg, fondatore e padrone indiscusso del più popolare social del mondo, centrando in pieno l’argomento: Internet sta ridisegnando la vita delle persone, agganciandoli alla rete e facendo trascurare loro il valore e l’importanza della riservatezza personale.
In ultima battuta, dunque, l’importante sembra essere che il pagamento dei 5 dollari avvenga subito, così da poter sorseggiare una birra gratis. Con buona pace della propria immagine ormai intrappolata per sempre in qualche oscuro server.