Il disincanto, la volatilità, la delusione politica di elettori più o meno affezionati nelle urne d’Italia: un excursus nelle elezioni più decisive della storia della repubblica, numeri alla mano
di Luca Tentoni
Si è detto e si è scritto molto, nell’anno trascorso dalle ultime elezioni politiche, del valore che – nella raccolta dei consensi – può assumere l’evocazione o il riconoscimento delle paure degli italiani. Ciò vale anche per le evoluzioni dei sondaggi. Tuttavia, con particolare riguardo alla volatilità elettorale e alla diminuzione complessiva dell’affluenza alle urne (la Sardegna è una piccola eccezione alla regola) c’è forse da porre attenzione ad un altro fattore che permette la “libera uscita” (in taluni casi, definitiva) di quote consistenti di voti. Ci riferiamo alla categoria del disincanto.
Durante la Prima Repubblica questo effetto colpiva soprattutto l’elettorato d’opinione, che non si poteva definire disincantato ma selettivo nelle scelte. Certo, il brusco calo della Dc nel 1983 e quello – meno consistente, ma rilevante – del Pci nel 1979 rappresentarono esempi di reazione negativa ad un’offerta politica che risentiva di un logorio (i comunisti avevano pagato l’alleanza con la Dc nel triennio ’76-’79) o di un mutamento interno non accettato da alcuni settori dell’elettorato (la svolta di De Mita, che mandò “in libera uscita” milioni di voti soprattutto verso il Pri, il Pli e il Msi). Però il luogo in cui la “libera uscita” diventò disincanto fu (ed è) la Seconda Repubblica.
Raggiunse il massimo nel biennio 1992-1994, incoraggiato da una diversa offerta politica e partitica. Qui nacque e si sviluppò il fenomeno di quella che – del tutto avalutativamente – potremmo definire “imprenditoria politica dello scontento”. Il secondo a fruirne fu Berlusconi, con Forza Italia, perché il primo era stato – già negli anni Ottanta e nel passaggio ’89-’92, limitatamente ad alcune province del lombardo-veneto e poi in tutto il Nord – Bossi con la sua Lega. Una volta strutturato il nuovo sistema, imperniato su una competizione tendenzialmente bipolare (dove vinceva lo schieramento nel quale nessun possibile alleato defezionava: di qui il successo del centrosinistra nel 1996 e quello del centrodestra nel 2001, ma anche quello dell’Unione nel 2006), il disincanto si manifestava in spostamenti di consensi fra partiti coalizzati. In altre parole, dai modesti flussi della Prima Repubblica (anche fra partiti alleati) si passava a scambi più consistenti, però destinati a rimanere “in famiglia”.
Il disincanto era “governato”, incanalato nell’offerta plurale di coalizioni composte da più soggetti politici capaci di diversificare alcune posizioni pur di costituire microcosmi chiusi, capaci di soddisfare anche gli elettori “mobili”, convincendoli a spostarsi all’interno di un perimetro ben definito. Il bipolarismo e la reciproca delegittimazione dello schieramento avversario rendevano l’osmosi molto limitata, costringendo l’elettore scontento a scegliere un partito vicino a quello votato la volta precedente oppure (evento meno frequente, anche se statisticamente non marginale) all’uscita dall’arena, cioè all’astensione. Delimitato il campo e chiarito che “extra Ecclesiam, nulla salus” (intesa la nuova Chiesa come il bipolarismo, con eccezioni limitate e permesse, come per la Lega nel ’96 e Idv-Prc nel 2001) si era giunti, nel 2006, ad un turno elettorale praticamente senza terze forze, dove Unione e CDL raggiungevano e superavano di poco il 99% dei voti.
La crisi del secondo governo Prodi, ma soprattutto la deflagrazione del centrosinistra e la nascita di una formazione (il Pd) “a vocazione maggioritaria” (quindi non aperta ad alleanze, fatta eccezione per qualche esponente radicale candidato con i democratici e la “piccola intesa” con l’Idv) spinse molte forze politiche – socialisti, verdi, comunisti a cercare altre vie. Sull’altro versante, il centrodestra si sentiva così forte – dopo la svolta del “predellino” che avrebbe dato vita più tardi al Pdl – da poter espellere l’Udc. La configurazione dei due nuovi “piccoli poli” era però ancora strutturata in modo da canalizzare l’eventuale scontento: i delusi del Pd potevano confluire nell’Idv (cosa che avvenne, fra il 2009 e il 2012), mentre quelli del Pdl potevano scegliere la Lega (la quale si rafforzò molto, prima della fine dell’ultimo governo Berlusconi e degli scandali interni al Carroccio). Mentre l’Udc riuscì a salvarsi, mantenendo le posizioni elettorali e giovandosi della sua possibile collocazione pivotale fra Pd-Idv e Pdl-Lega, la sinistra esplose. Il raggruppamento Arcobaleno, nato più per necessità di superare le soglie d’accesso al Parlamento che per consonanza di ideali e di strategie, finì per essere il bersaglio del disincanto di sinistra, essendo punito da quegli elettori che avevano valutato negativamente le politiche di Prodi e il sostegno che queste avevano avuto (con parecchie ambiguità, peraltro) dai partiti comunisti ed ecologisti.
Fu così che il disincanto si trasformò per la prima volta in una clamorosa exit, cioè in un aumento dell’astensionismo, unito a flussi in direzione della “piccola coalizione” di centrosinistra da parte di elettori che invece giudicavano troppo estrema ed egemonizzata dai comunisti la proposta “Arcobaleno”.
Fu in quella fase, fra il 2007 e il 2008, che si posero le basi per il rientro in gioco di quegli elettori usciti dall’arena; pochi anni dopo li avremmo ritrovati nel nascente M5S, in coerenza con le posizioni giustizialiste e di sinistra che cercavano soggetti politici e risposte nuove, più radicali e forti. La storia non si può fare con i “se”, ma è facile pensare che un M5S nato nel 1997 anziché dieci anni dopo non avrebbe avuto fortuna, né spazio politico. La provocatoria richiesta di Grillo di partecipare alle primarie del Pd nel 2009 era frutto del fatto che il mondo ancora in formazione del primo M5S si sarebbe rivolto principalmente ai delusi della sinistra e del centrosinistra.
Nel perfetto sistema del 2006 si era creata una breccia per far defluire il disincanto, che infatti finì verso i “grillini” prima da sinistra, poi dal centrosinistra (in particolare col repentino crollo dell’Idv nel giro di poche settimane, negli ultimi mesi precedenti il voto del 2013), poi – già dopo la grave crisi del 2010-11 – dal centrodestra. In qualche modo Fini cercò di rappresentare, insieme a Casini, una “terza via” che incanalasse il disincanto dalla CDL verso un raggruppamento centrista che però non appariva competitivo e che sarebbe finito per essere uno dei principali “azionisti” della maggioranza sostenitrice del governo Monti.
Qui il disincanto si fece più diffuso, anche a causa delle misure economiche che l’Esecutivo fu costretto dalle circostanze ad adottare. Ma, a quel punto, i possibili punti di fuga dal sistema erano diventati parecchi. A destra, la Lega poteva provare ad arginare le defezioni dal Pdl, ma lo scandalo che pose fine all’era di Bossi fece crollare anche questo bastione. Fu così che – anziché aversi un massiccio aumento dell’astensione – ci si ritrovò all’apertura delle urne del 2013 con il M5s primo partito (sezioni estere escluse).
Non fu un caso che la ricostruzione leghista ebbe successo proprio perché interprete di un sentimento di discontinuità e di protesta di destra capace di drenare parte degli scontenti della vecchia Cdl. Cosa che è puntualmente accaduta anche con le elezioni del 2018 e molto di più dopo, quando il centrodestra berlusconiano è stato sostanzialmente svuotato ad opera di una forza che non è più alleata in ambito nazionale, ma lo è in quello locale (perciò costituisce un’occasione di “uscita morbida” dal campo azzurro).
Anche il M5S ha proseguito la sua opera di catalizzatore della disillusione e della rabbia degli elettori altrui, però – già dalle prime fasi dell’esperienza di governo – sembra essere rimasto vittima dello stesso male che colpì Unione e CDL, a tutto vantaggio di Salvini (che così recupera l’elettorato finito nel 2013-’15 ai Cinquestelle) ma soprattutto dell’opzione teoricamente più pericolosa per il Movimento: l’astensione. Quest’ultima scelta, praticata frequentemente dagli elettori pentastellati alle elezioni regionali e in parte alle amministrative (soprattutto in assenza di candidati del M5S al ballottaggio), sembra diventata la valvola di sfogo per i disillusi dalla “coabitazione contrattuale” col Carroccio. Poiché difficilmente, come si è visto (tranne che nel caso della Lega, la quale sembra – per molti versi – quasi un altro partito rispetto a quello di Bossi) i voti dei delusi che escono da “recinti protetti” non rientrano nel sistema, ma finiscono nell’astensione oppure a partiti nuovi, c’è da chiedersi cosa accadrebbe se gli attuali soggetti politici di governo dovessero subire una crisi di consenso.
L’astensione è una possibile via d’uscita, così come potrebbe esserlo (tuttavia, in quote marginali e comunque non maggioritarie) un poco probabile ritorno ai vecchi poli, ma nessuno può escludere che ulteriori scossoni politici portino all’emergere di forze politiche: nuovi “imprenditori dello scontento” che oggi non ci sono e dei quali, dunque, non si può ipotizzare l’orientamento e la prospettiva.