Disoccupazione giovanile al 20%, crollo dei servizi e boom del turismo. Ecco come Tsipras ha portato i greci fuori dal tunnel
di Stefano Bruni
Tutti parlano della “troika” ma pochi sanno veramente cosa sia. Per avere un’idea basta andare sul sito del Parlamento europeo: è “l’insieme dei creditori ufficiali durante le negoziazioni con i paesi”, ed è una “terzina” costituita da rappresentanti della Commissione europea, della Banca centrale europea e del fondo monetario internazionale.
Quello che fa “realmente”, quali conseguenza genera un suo intervento prolungato, invece, lo sanno bene i Greci.
Dal 2009, dopo che il l’allora neo Presidente Papandreu rivelò come i bilanci economici presentati dai precedenti governi all’Unione europea erano stati falsificati con l’obiettivo di garantire l’ingresso del Paese nella zona euro, la Grecia entrò nella spirale del rischio di bancarotta del Paese.
Da lì, prima di arrivare all’intervento della Troika, per ben due volte i Paesi della zona euro e il Fondo Monetario Internazionale autorizzarono due prestiti di salvataggio per un totale di 240 miliardi di euro.
I prestiti, però, non furono sufficienti. E fu così che si dovette ricorrere all’intervento dello “specialista”, la “troika”: la patologia era grave e la cura, dunque, dovette essere “drastica”. Taglio di 1,1 miliardi dei costi dei farmaci, riduzione dei salari minimi del 22% e 15 mila posti di lavoro in meno nel servizio pubblico furono solo alcuni degli interventi imposti.
Proprio pochi giorni fa la Grecia è riuscita a riprendersi la sua autonomia, liberandosi dalla eterodirezione europea e ottenendo anche alcuni risultati positivi sul fronte dell’economia interna. Il prezzo pagato però in termini soprattutto sociali è stato elevatissimo.
Da un lato, infatti, la penisola ellenica ha recuperato i propri rapporti finanziari con i mercati internazionali, il turismo ha avuto uno sviluppo spettacolare per il crollo del prezzo dei servizi dovuto alla deflazione registrata, il settore della produzione di alcolici ha fatto registrare un aumento della produzione e delle esportazioni pari al 64% negli ultimi anni, le famiglie impoverite che prima vivevano nelle città hanno rimesso in moto le produzioni agricole e agro-industriali tradizionali portando i loro risparmi nelle zone rurali e l’olio di oliva ha aumentato non solo la qualità ma anche la quantità, prodotta ed esportata.
Dall’altro lato, però, in otto anni sono sparite le medicine dai banchi delle farmacie e i beni di prima necessità dagli scaffali dei negozi; è evaporato un quarto del Pil mentre la disoccupazione è schizzata al 27,5% con quella giovanile arrivata addirittura al 60% prima di assestarsi nel 2018 attorno al 19%, contro una media europea dell’8,3%.
E poi, mezzo milione di greci sono emigrati all’estero mentre, nello stesso arco di tempo, il 20% più povero della popolazione ha perso il 42% del potere d’acquisto, gli stipendi medi e i redditi dei lavoratori sono costantemente diminuiti, con un incremento spettacolare della povertà e un abbassamento drastico dei redditi dei pensionati.
Insomma, gli aiuti hanno funzionato solo per certi versi. Per altri hanno invece reso le cose un po’ più complicate.
E questo è accaduto perché i prestiti (circa 330 miliardi) concessi alla Grecia sono serviti sì a pagare il debito ai creditori internazionali e alla Ue ma non certo per dar vita a nuovi investimenti o per ridurre in minima parte l’austerità.
Il caso Grecia conferma dunque le tesi sostenute dall’economista Albert Hirschman il quale, studiando le crisi dell’America del Sud, sosteneva come più che i piani di salvataggio per la ripresa economica di quei paesi bisognasse piuttosto puntare sullo sviluppo endogeno, guardando proprio alle modificazioni strutturali prodotte dalla crisi.