“Fare la maestra alla scuola dell’infanzia è alla portata di tutti: basterebbe una mamma qualunque per svolgerne la professione”. Questa la convinta impressione fortemente radicata nell’opinione pubblica. Ma è davvero così?
Oggi, più che mai, si rende necessaria una riflessione da quando l’Autorità Giudiziaria ha amplificato a dismisura (di 14 volte dal 2014 al 2019) e senza un apparente motivo, la sua azione penale nei confronti delle maestre del Paese accusate troppo spesso di “maltrattare” i loro alunni. Fatto che sorprende oltremodo, poiché non trova alcun riscontro nei restanti Paesi occidentali e riguarderebbe le sole maestre italiane. Forse è bene ripercorrere il processo di crescita di un individuo, quindi esaminare i ruoli delle persone, nell’accompagnare l’iter di trasformazione del bambino in adulto.
- Se si esclude il periodo gestazionale – peraltro assai significativo e integralmente fisico tra madre e feto – la vita relazionale ha inizio dal rapporto materno-filiale che è asimmetrico, esclusivo (1:1) ed educativo.
- Al contrario, il lavoro della maestra alla scuola della infanzia concerne prevalentemente la socializzazione di cui i bimbi (per giunta quasi sempre figli unici) fanno esperienza per la prima volta. Fino a quel momento il riferimento unico e assoluto era stato la mamma che aveva avviato il processo di crescita con l’educazione del figlio, mentre ora si tratta di sperimentare l’inserimento nel gruppo dei pari sotto la guida di un adulto. In sintesi, il rapporto cambia radicalmente divenendo simmetrico, tra pari e multiplo.
- Educazione e socializzazione sono pertanto processi affatto diversi e distinti tra loro. Non sono intercambiabili, bensì complementari e parimenti indispensabili. Il genitore che non conoscesse la differenza tra i due processi rischia di confliggere con la maestra. Infatti, in una classe possono esserci per legge fino a 29 bimbi, ciascuno col suo stile educativo, appreso in famiglia, e affatto diverso da quello dei suoi compagni. Alla maestra toccherà l’immane/ingrato compito di plasmare tutti i diversi stili educativi dei bimbi affinché si uniformino sufficientemente da consentire loro l’esperienza della socializzazione.
- Il passaggio dalla educazione familiare alla socializzazione scolastica comporta pertanto un fisiologico rischio di contrasti tra genitori e maestra. Ciascuna mamma è solitamente convinta che il suo stile educativo sia quello giusto, e l’unico perseguibile, sottovalutando il rischio di fare del proprio figlio un “onnipotente” che, in quanto tale, concepisce l’intero mondo esclusivamente al proprio servizio sentendosene il centro. Questa auto-percezione egocentrica del bimbo è fisiologica ma richiede un reindirizzamento per evolvere verso il processo di socializzazione prima e d’integrazione poi.
- Dai punti sopra enunciati è facile comprendere che i rapporti tra maestra e genitori possono essere talvolta fisiologicamente turbolenti e richiederanno un ulteriore sforzo per spiegare la differenza tra educazione familiare e socializzazione scolastica. Se però l’attrito non dovesse risolversi, occorre una mediazione autorevole che può essere garantita solo dal dirigente scolastico. Questi possiede la preparazione pedagogica necessaria per intervenire con autorevolezza nella disputa e soprattutto agire direttamente nei confronti della maestra in quanto sua dipendente.
- Quando, invece di risolversi, il contrasto si acuisce e culmina inopinatamente con una denuncia alla Autorità Giudiziaria (per maltrattamenti o abuso dei mezzi di correzione), il caso si complica, si amplifica attraverso i media, schiaccia la maestra, carica i genitori ma, soprattutto, incrina definitivamente la fiducia scuola-famiglia e fallisce lo sviluppo sociale del bimbo. Quel fisiologico contrasto tra mamma e maestra assumerà le sembianze di un patologico scontro che l’Autorità Giudiziaria trasformerà in ipotesi di reato (artt. 571 e 572 c.p.), dando il via a un iter sciagurato. A differenza del dirigente scolastico l’Autorità Giudiziaria, inoltre, non è competente in materia di educazione e pedagogia né può intervenire tempestivamente, impiegando altresì interi lustri per giungere a una discutibile conclusione.
- L’Autorità Giudiziaria, inoltre, entra nella scuola coi suoi soliti metodi d’indagine quasi si trattasse di un ambiente malavitoso: audiovideointercettazioni con pesca a strascico ad libitum, selezione avversa dei progressivi, decontestualizzazione, interpretazioni e drammatizzazione delle trascrizioni. Il tutto, come già detto, senza la minima competenza in materia di educazione, istruzione e pedagogia. L’esperienza ci insegna che i progressivi contestati alle maestre nelle intercettazioni(mediamente 200/300 ore totali) sono intorno allo 0,1% del registrato che viene per giunta decontestualizzato e drammatizzato. E senza tenere conto che, per ovvia conseguenza, il 99,9% delle intercettazioni è ritenuto idoneo dagli stessi inquirenti.
- Men che meno l’Autorità Giudiziaria è a conoscenza del fatto che le maestre non dispongono della lista bianca dei metodi correttivi (nemmeno la suprema Corte di cassazione ha saputo stilarne una), ma solo della lista nera. In altri termini, alle maestre non è dato il modo, né i mezzi coi quali operare. Siamo davvero di fronte a un indicibile paradosso giuridico: l’art. 571 c.p. tratta l’abuso dei mezzi di correzione, ma – udite, udite – non è dato sapere quali essi siano.
- I costi di un procedimento penale sono poi esorbitanti anche se si calcola l’investimento in tecnologie e personale (inquirenti) che sarebbero impiegabili altrimenti. Si pensi inoltre che le intercettazioni costano mediamente 10.000 euro, mentre gli inquirenti sono circa dieci per ciascuna indagine. Il tutto deve essere ovviamente moltiplicato per i cinquecento casi occorsi – nella sola Italia – nell’ultimo decennio (2014-2023). Circa la gravità dei fatti, si noti che la scuola risulta essere in assoluto l’ambiente più sicuro per un minore: lo comprova la cronaca nera quotidiana che vede, al contrario, l’ambiente domestico come quello in cui si verificano le aggressioni più gravi a donne e bimbi cagionandone persino la morte.
- L’intervento della Autorità Giudiziaria nella scuola risulta perciò essere intempestivo, costoso, inappropriato, incompetente, nonché ridondante. Il dirigente scolastico invece possiede tutti gli strumenti validi per gestire immediatamente, in autonomia, in emergenza e assolvere con competenza il mandato di tutelare gli alunni, oltreché la salute dei docenti. Il valido preside saprà se, quando e come ricorrere al controllo, alla verifica, all’affiancamento, all’ispezione, all’accertamento medico d’ufficio, alla sospensione cautelare, alla sanzione disciplinare. Al contrario, un capo d’istituto non all’altezza si limiterà a fare da portalettere recandosi in caserma a sporgere denuncia senza nemmeno provare a risolvere il caso di sua esclusiva competenza.
Un sistema semplice per dirottare l’intervento dell’Autorità Giudiziaria nelle opportune sedi, ove risiede chi ne ha effettivo bisogno (donne e bambini in famiglia), sarebbe quello di riformulare il titolo dell’art. 572 c. p. (“Maltrattamenti in famiglia”) dotandolo di apposita – ed eloquente – punteggiatura: “Maltrattamenti? In famiglia!”.
La pacificazione tra scuola e famiglia passa attraverso la restituzione alla scuola di ciò che è sua materia, evitando nocive invasioni di campo da parte di istituzioni terze che nulla hanno a che vedere con essa. La figura del dirigente scolastico deve essere resa operativa e rimessa al centro per svolgere in prima persona tutte quelle funzioni che possiede, e gli competono, nel garantire e preservare l’incolumità degli alunni. Un preside che si limita a sporgere denunce – pur non essendovene ragione – senza prima intervenire coi tanti mezzi a disposizione, sottoscrive la sua inadeguatezza al ruolo.
Vittorio Lodolo D’Oria www.facebook.com/vittoriolodolo