Qualcuno ha già cominciato a dire che il finale era scritto fin dall’inizio, ma non è vero. Anche ammettendo che Renzi abbia sempre coltivato l’obiettivo dell’incarico a Mario Draghi, che cosa facevano nel frattempo i suoi interlocutori al tavolo delle trattative per il Conte ter? La “sconfitta della politica” di cui si parla in queste ore esprime troppo e al tempo stesso troppo poco.
Se è vero che l’arrivo di Super Mario equivale a una sorta di commissariamento per tutti i partiti, solo due ne escono davvero bastonati: il Movimento 5 Stelle e il Pd. Li citiamo in ordine di ampiezza delle rispettive rappresentanze parlamentari, ma dal punto di vista delle responsabilità e delle conseguenze di ciò che sta accadendo le loro posizioni andrebbero invertite.
Più dei 5 Stelle, la cui mancanza di coesione e di una vera linea politica ormai non sorprende nessuno (e può rendere molto più complicato di quanto già non sia il nuovo scenario), è inevitabile puntare i riflettori sul Pd e sul suo segretario Nicola Zingaretti, responsabile di errori cruciali di cui dirigenti, iscritti ed elettori dem potrebbero chiedergli conto fin dai prossimi giorni.
Si comincia con l’inspiegabile indulgenza riservata per mesi a Giuseppe Conte, alla sua gestione della pandemia e ad un Recovery plan che faceva acqua da tutte le parti. E’ stata l’inerzia di Zingaretti a spianare la strada, quasi per supplenza, alla levata di scudi di Renzi di cui molti, anche nello stesso Pd, hanno ammesso di condividere la sostanza pur criticandone i toni e le forme.
Che dire poi dell’infelice ricerca dei “responsabili” necessari a rabberciare la maggioranza in Senato, frutto di calcoli, politici e numerici, completamente sbagliati? Infine, c’è l’irrigidimento improvviso, dopo giorni di atteggiamento apparentemente dialogante, che ha come minimo contribuito a far saltare l’esplorazione del presidente della Camera Roberto Fico. Una sequenza micidiale.
Tanti anni fa, quando il segretario della Cgil e dirigente comunista Luciano Lama fu cacciato dalla Sapienza di Roma dalla contestazione violenta di Autonomia operaia, fu sorpreso di essere trattato con qualche freddezza dall’allora segretario del Pci Enrico Berlinguer. In quel partito, da cui Zingaretti proviene, non si tolleravano sconfitte. Altri tempi. Il Pd è sicuramente molto meno severo con i suoi dirigenti, ma è facile prevedere che il tema dell’adeguatezza del segretario e della presunta abilità strategica dei suoi consiglieri (in primo luogo Goffredo Bettini) sarà ben presto sul tavolo.
Ora comincia tutta un’altra storia, ed è paradossale che ciò avvenga attraverso un personaggio per biografia professionale e intellettuale tutt’altro che distante da quell’area politica. Draghi, come molti ricordano, è stato uno dei “Ciampi boys” al ministero del Tesoro negli anni Novanta e al suo attivo, oltre a moltissime altre cose, ha anche e soprattutto il whatever it takes con cui ha salvato l’euro, piegando la voglia di austerità monetaria presente in una parte del board della Bce. Insomma, è uno dei sostenitori delle politiche economiche keynesiane più rispettati in Europa e nel mondo.
Nelle prossime ore capiremo in che modo vorrà applicare le sue idee al rebus politico ed economico italiano. La sua strada non parte certo in discesa. Anzitutto perché deve cercarsi in Parlamento una maggioranza che sulla carta ancora non c’è. Sarà abbastanza forte da proporre e realizzare le riforme impopolari che servono al paese? Incognite e rischi non mancano di certo, ma è difficile negare che oggi nessuno più di lui sembra avere le carte in regola per aiutare l’Italia a rimettersi in movimento.