I termini che suonano male non stonano rispetto al sistema della lingua italiana, ma rispetto agli stereotipi culturali. L’italiano, essendo una delle più complesse lingue al mondo per ricchezza morfologica possiede gli strumenti per declinare al femminile
di Eleonora Camilli
Parler n’est jamais neutre – parlare non è mai neutro: così Luce Irigaray, pensatrice e filosofa della teoria della differenza sessuale, intitolava uno dei suoi saggi (1985) volti a denunciare la necessità di un ordine simbolico che si distinguesse da quello maschile e androcentrico per dare voce alla soggettività femminile. Riconoscere quindi la differenza tra uomo e donna come primo passo per riconoscere tutte le altre: solo in questo modo è possibile pensare una società multiculturale che si relazioni e interloquisca in senso positivo con ciò che si presenta come altro e diverso da sé.
Dalla filosofia alla semiotica, che con il femminismo americano negli anni Sessanta e Settanta ha elaborato il concetto di linguistic sexism (sessismo linguistico) nell’ambito degli studi sulla manifestazione della differenza sessuale nel linguaggio, la riflessione si è ampliata fino a toccare l’ambito sociolinguistico, con il volume molto controverso e dibattuto a firma di Alma Sabatini, intitolato Il Sessismo nella lingua italiana, studio fondante la riflessione contemporanea a proposito dell’uso della lingua italiana a sostegno della parità di genere, intesa non più ‒ o meglio non solo ‒ come uguaglianza, ma come possibilità per le donne di accedere alle stesse opportunità degli uomini.
Pubblicato nel 1986 dal Dipartimento per l’informazione e per l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per conto della Commissione Nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna, il lavoro di Sabatini ha per oggetto lo studio analitico della lingua italiana al fine di favorire la rimozione di fattori discriminatori, in modo particolare rispetto a cariche di prestigio e ruoli di potere ricoperti da donne.
Le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, capitolo dedicato a proposte linguistiche a sostegno della parità di genere nel linguaggio, si rivolgono in prima battuta al mondo della scuola e dei media soprattutto perché, come ha rimarcato l’allora direttore dell’Agenzia Ansa Sergio Lepri nell’ambito della sua prefazione al volume, gli organi d’informazione sono responsabili non solo dell’arricchimento o della semplificazione del patrimonio linguistico della popolazione, ma sono anche e soprattutto veicoli di rappresentazioni più o meno stereotipate.Esiste del resto un’interconnessione tra realtà, lingua e pensiero.
La lingua, tuttavia, non è riflesso diretto dei fatti reali, essa esprime piuttosto la nostra versione dei fatti: il linguaggio quindi condiziona e limita il pensiero, così come sostiene il concetto di relatività linguistica, meglio noto come ipotesi di Sapir-Whorf, dai linguisti statunitensi Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf che l’hanno teorizzata.
Questa la premessa teorica da cui ha avuto origine l’indagine di Sabatini che, durante il periodo 1° novembre – 15 dicembre 1984, ha messo a punto uno spoglio dei numeri quotidiani de Il Messaggero, Il Tempo, Il Corriere della Sera, Il Giornale, Il Paese Sera, Il Mattino, confrontandoli con due settimanali, Espresso e Gente, e due riviste femminili, Anna e Amica, per dissodare per un verso le immagini stereotipate relative alle donne (quelle considerate naturali, o meglio connaturate alle stesse), e per un altro la centralità dell’uomo e del maschile, come unico soggetto possibile.
I risultati ottenuti hanno squarciato il velo di Maya attorno all’uso del maschile con qualunque tipo di riferimento, il cosiddetto maschile neutro o generico inclusivo o plurale inclusivo, che occulta non solo la presenza ma anche l’assenza delle donne dal discorso culturale: in questo senso esercita un’azione politica. E questo è dimostrato dal fatto che il maschile può essere marcato o non marcato, al contrario il femminile lo è sempre: dire tutte le donne è percepito in modo differente dal dire tutti gli uomini, con quest’ultimo termine infatti, si indica spesso l’intera popolazione. L’indagine ha inoltre mostrato una pervicace resistenza nei confronti della declinazione al femminile che fosse simmetrica rispetto al maschile di nomi agentivi e in particolare rispetto a cariche, professioni di prestigio e titoli. La tendenza sembrava piuttosto costruire il femminile con il suffisso derivativo –essa e quindi come appendice della radice maschile, quando invece i nomi formantisi da participio passato seguono la regola della desinenza in -o per il maschile, e in -a per il femminile, come in avvocato/a.
A questo proposito, raccomanda Cecilia Robustelli nel suo Donne grammatica e media. Suggerimenti per l’uso dell’italiano, studio condotto sotto l’egida dell’Accademia della Crusca, presentato alla Camera nel 2014, alla presenza della presidente Laura Boldrini, che molto si è battuta rispetto alla questione di genere nel linguaggio, è bene non esasperare le differenziazioni. Ben venga allora l’uso di nomi come professoressa, studentessa, dottoressa, giacché la connotazione negativa si è ridimensionata sull’onda di una notevole presenza di donne che accedono a queste cariche, da evitare però – ammonisce Robustelli ‒ l’uso spropositato di tali suffissi in altri ambiti, sia perché si tratta di una forma derivata, spesso utilizzata in modo irrisorio (su tutti l’avvocatessa, molto in voga tra Otto e Novecento tra i detrattori dell’emancipazionismo femminile), sia perché non necessaria quando la regola grammaticale non lo preveda, come nel caso dei nomi epiceni, e cioè uguali al maschile e femminile, che si marcano grammaticalmente con l’articolo: “il/la presidente” e non “la presidentessa”.
È bene utilizzare quindi la regolare declinazione, sempre che si possieda la competenza linguistica per farlo: di qui la delicatezza del compito degli organi d’informazione, dotati peraltro di prontuari per destreggiarsi nei casi più ostici, nel fornire strumenti per attuare un cambiamento d’uso, quello più incisivo e praticabile. In questo senso gli Stati Uniti sono stati pionieri tra gli anni Sessanta e Sessanta nel prestare attenzione alla questione attraverso due interventi: l’uso dell’appellativo unificato Ms al posto dei due Miss e Mrs davanti a nomi di donna, e quello più strutturale di modificare il nome mailman in mailperson, registrato nell’edizione del 1977 del Dictionary of Occupational Titles.
Da questo punto di vista l’Italia sembra essere la nazione che oppone maggiore resistenza nei confronti di un’iniziativa volta a rimarcare la presenza delle donne nella società e nel discorso culturale, anche e soprattutto attraverso i media, come denotano i dati del gender gap del World Economic Forum che da anni segnalano il nostro paese all’ultimo posto nella classifica europea e tra gli ultimi in quella mondiale (114° su 142 nel 2014). Aspetto paradossale se si pensa invece all’estrema duttilità nell’ereditare prestiti, calchi, neologismi e anglismi entrati nell’uso per consuetudine, moda linguistica, anche necessità, in assenza di corrispettivi che rendano a pieno il significato della lingua sorgente.
La resistenza giace nella mente di chi parla, non nella struttura linguistica. Solitamente la prima obiezione mossa dai detrattori degli usi linguistici non sessisti è che si tratta di un puro vizio di forma, quando non addirittura di politically correctness, invocando questioni ben più importanti da affrontare e così ignorando che i problemi della società discendono direttamente da una visione del mondo. Cristallizzarsi in una forma è spesso confortante: questa pervicace tendenza a resistere al cambiamento si colloca e si sostiene su un antico bisogno di guida, di avere delle radici. Eppure a ben vedere la nostra genealogia risale direttamente alla civiltà latina, che non solo distingueva tra maschile e femminile nella pratica della nominazione, ma utilizzava una forma neutra per dare voce al mondo inanimato.
Sulla scorta del fatto che la lingua è specchio della società che cambia, oggi la riflessione è tornata a guardare oltre il binarismo maschile/femminile. Dagli anni Ottanta il dibattito si è arricchito di nuove teorie: negli ultimi decenni, infatti, con l’introduzione di Women’s e Gender Studies nelle università non si parla più dell’esistenza di due soli generi, come pure dell’esistenza di un unico femminismo. Il pensiero della differenza sessuale, molto radicato in Italia e in Europa, si è dovuto confrontare con le varie declinazioni che la battaglia delle donne ha assunto nelle diverse aree del mondo, riportando al centro del discorso la questione dell‘identità culturale.
In questo senso ha svolto un’opera di fondamentale importanza la critica del femminismo nero e postcoloniale al femminismo eurocentrico, che aveva sempre considerato il genere e l’opposizione binaria maschile/femminile come la sola categoria possibile, reificando una semplificazione uguale e opposta a quella perpetrata dal sistema patriarcale, in questo caso omologando le differenze di classe, razza, condizione culturale che sussistono tra le donne. Di qui il merito della declinazione al plurale della parola donna all’interno di un discorso culturale che voglia parlare anche a donne appartenenti a culture e contesti diversi, come fa Gayatri Chakravorty Spivak, una delle più autorevoli personalità del femminismo postcoloniale, nel suo testo più noto intitolato Can the Subaltern Speak? (1988), invocando la necessità di dare voce a chi è subalterno rispetto al discorso mainstream.
Un’ultima tendenza in campo linguistico è quella che guarda alla cosiddetta teoria queer, coniata da Judith Butler negli Stati Uniti, interprete Teresa De Lauretis in Italia, termine indicante una figura fluida che non si riconosce nell’ordine sociale precostituito ma che rappresenta l’alterità rispetto all’opposizione uomo/donna e rifiuta ogni tipo di categorizzazione: di qui la necessità di tradurre il pensiero in parola attraverso il superamento della distinzione tra i generi e quindi la proposta di utilizzare l’asterisco al posto della declinazione maschile e femminile, come nel caso di tutt*. La problematicità relativa alla lettura di tale segno grafico è stata ovviata attraverso la proposta di leggere l’asterisco come la vocale u (e quindi tutt* si leggerà tuttu). Chi volesse criticare la proposta per impraticabilità d’uso, almeno riconosca la portata provocatoria che assume nel dibattito attuale.
La seconda delle obiezioni mosse è che queste parole suonano male. Sarebbe forse più appropriato ammettere che suonano “nuovo”. I termini che suonano male non stonano rispetto al sistema della lingua italiana, ma rispetto agli stereotipi culturali. L’italiano, essendo una delle più complesse lingue al mondo per ricchezza morfologica, possiede gli strumenti non solo per declinare al femminile, e quindi per creare un nome simmetrico nell’ottica della parità di genere nei ruoli, ma anche per superare confini ampliando l’orizzonte a nuove formazioni che possono essere coniate attraverso il procedimento della mozione, e cioè di uno spostamento di genere delle parole, a prescindere dal fatto che entrino nel dizionario, essendo l’uso il vero banco di prova.
Ad ogni modo, si tratta di un processo sempre produttivo: avvalersi quindi della lingua come un’opportunità di arricchimento, per pensare una società differente, evitando di trasformarsi in automi non pensanti che per ignoranza, consuetudine o resistenza, perpetuano modelli anacronistici rispetto a una società inevitabilmente in divenire.
Rimarcare la presenza delle donne, e con esse di chi è altro e diverso da sé, che si tratti di una minoranza o di un’eccentricità che ricontratta la propria soggettività, è il primo passo per creare dei modelli culturali che possano ispirare le future generazioni e quindi affrontare in modo concreto i nodi ostici della società che si tramandano tacitamente proprio attraverso l’uso del linguaggio, quali la sperequazione salariale, la disoccupazione femminile, la violenza maschile contro le donne, l’omofobia, per citarne alcuni.
Del resto si tende a vedere solo ciò che possiede un nome: nominare significa dare un valore, un riconoscimento, una dignità. Le parole contano: una precisazione che appare scontata, ma in fondo mai banale dato che l’ovvio culturale è spesso invisibile ai più.
Dell’interconnessione tra lingua e pensiero già parlava Orwell nel 1954: «Il nostro inglese diviene brutto e impreciso perché i nostri pensieri sono sciocchi, ma la sciatteria del nostro linguaggio agevola i pensieri sciocchi. Il punto è che il processo è reversibile».
Scrivere e parlare tenendo in considerazione chi è altro e diverso da sé significa che all’origine giace un pensiero sano. E mai come oggi abbiamo bisogno di pensatori, pensatrici e pensator*di un mondo migliore.