La guerra in Ucraina ha, parafrasando pedissequamente la teoria dei corsi e ricorsi storici di Giovambattista Vico, messo a nudo ancora una volta la drammatica dipendenza energetica italiana dagli approvvigionamenti esteri. Un problema ultradecennale che si manifestò in tutta la sua gravita già nel 1973 e nel 1979, a causa dei due shock petroliferi internazionali.
La penuria di materie prime nel sottosuolo della Penisola e i problemi di fabbisogno energetico nazionale indussero il regime fascista a istituire nel lontano 1926, l’Agip, soprattutto in vista di un secondo conflitto bellico su scala mondiale, che avrebbe potuto vedere pericolosamente dipendenti dai rifornimenti esteri le nostre forze armate.
Nel 1953, negli anni del centrismo democristiano, nacque l’Eni, guidato in modo geniale e lungimirante da Enrico Mattei, che con una spregiudicata politica indipendentista di accordi bilaterali in Africa, Arabia Saudita e Medio Oriente, rese l’Italia una minaccia concreta al predominio delle Sette Sorelle angloamericane sul mercato petrolifero internazionale, fino al misterioso incidente aereo del 1962, che interruppe il progetto di politica energetica intrapreso brillantemente dal Governo italiano.
Nel frattempo, a cavallo tra la seconda metà degli anni ’50 e i primi anni ’60, in pieno boom economico, la nostra Nazione era la terza al mondo per potenziale produttivo nucleare, grazie alla programmazione e agli investimenti introdotti negli anni precedenti. Il coordinamento degli investimenti per la costruzione delle centrali nucleari, approvato nel 1962, fu affidato all’Enel, il nuovo ente statale nato in seguito alla nazionalizzazione del settore elettrico.
Dopo un parziale stop di qualche anno, alla fine del decennio, nel 1969, venne ripreso il programma nucleare che portò all’inizio del decennio successivo all’entrata in funzione delle prime tre centrali, a Garigliano, Latina e Trino Vercellese, riuscendo a diminuire parzialmente l’importazione di petrolio e sopperire alla remissività molto “atlantica”, dimostrata dal nuovo corso dell’Eni, guidato da Eugenio Cefis.
Dopo la contestazione giovanile, l’insorgere del terrorismo e il primo shock petrolifero che aumentarono la cronica instabilità economico-sociale italiana tra il 1968 e il 1973, il Governo Donat-Cattin presentò nel 1974 il Piano energetico italiano, fondato sull’approvazione di 6 centrali nucleari e sulla collaborazione tra Cipe, Cnen, Eni ed Enel, che fu approvato l’anno seguente.
Tuttavia, la difficoltà nel reperire gli ingenti finanziamenti necessari, la nascita dei primi movimenti ambientalisti e la complessità burocratica dell’iter autorizzativo, dovuta all’istituzione delle Regioni, rallentarono ancora l’inizio dei lavori e portarono ad un aggiornamento e a un parziale ridimensionamento del Piano nel 1977.
Tutti questi fattori endogeni contribuirono a cogliere nuovamente impreparato il nostro Governo allo scoppio del secondo shock petrolifero del 1979, aggravato dalla contestuale apertura dell’inchiesta sulla presunta maxitangente nell’affare Eni-Petromin, in cui l’ente nazionale idrocarburi aveva concluso un vantaggioso contratto di collaborazione a tutto campo con l’Arabia Saudita, con un attivismo imprenditoriale che non si vedeva dai tempi di Mattei.
Nel novembre 1981 divenne operativa la quarta centrale nucleare di Caorso e il Governo Spadolini presentò il terzo e più avanzato aggiornamento del PEN (Piano energetico nazionale), che prevedeva altri due impianti tutti con tecnologia adottata in Francia e Gran Bretagna, PWR (Pressurized Water Reactor) secondo i progetti del Pun, il Progetto unificato nucleare che aveva istituito una regia unica centralizzata per abbreviare i tempi di realizzazione e ridurre i costi complessivi.
Il Piano tra il 1981 e il 1982 vide la nascita dell’Enea, dalle ceneri del Cnen, il nuovo ente di ricerca sul nucleare e le energie alternative che, dopo il referendum abrogativo dell’opzione nucleare del 1987, si sarebbe occupato dello sviluppo delle fonti rinnovabili. Il 26 aprile del 1986, infatti, il disastro di Chernobyl avrebbe indotto i movimenti ambientalisti a consultare la popolazione circa il prosieguo o meno del programma atomico civile.
Purtroppo, la strumentalizzazione del gravissimo incidente dell’obsoleto impianto sovietico e la scarsa informazione e trasparenza sulle conseguenze derivanti dalla rinuncia a rendersi indipendenti dal massiccio import di petrolio, convinsero gli elettori a dire basta al nucleare, caso unico tra le nazioni occidentali, nonostante i confini nazionali fossero e siano tuttora circondati da centrali straniere di seconda e terza generazione.
Nel 2008-2010 il IV esecutivo Berlusconi provò a riproporre la costruzione delle centrali atomiche ma, come un film già visto, l’incidente giapponese di Fukushima diede il là a un nuovo referendum abrogativo, che mise forse la pietra tombale sull’utilizzo dell’energia nucleare.
In questi mesi, lo scoppio della guerra russo-ucraina ha riproposto in tutta la sua assoluta improcrastinabilità, l’urgenza di predisporre un nuovo piano energetico nazionale, che aumenti l’estrazione del gas metano dai giacimenti in Adriatico, in Basilicata e al largo della Sicilia, riportandola rapidamente ai livelli di 30 anni fa.
Negli anni ’90 e almeno fino ai primi anni 2000, infatti, in Italia si estraevano circa 20 miliardi di metri cubi di gas, mentre oggi non si arriva nemmeno a 4, a causa delle leggi ideologico-ambientaliste, che hanno progressivamente vietato le trivellazioni nel mar Adriatico e soprattutto nel golfo di Venezia, in cui i timori di un pericolo di subsidenza mai dimostrato scientificamente, hanno impedito dai primi mesi del 2008, lo sfruttamento delle riserve di metano, stimate tra i 20 e i 30 miliardi di metri cubi.
Statistiche non aggiornatissime presumono la presenza nel nostro sottosuolo terrestre e marino di una quantità tra 70 e 90 miliardi di metri cubi di gas che abbasserebbero drasticamente la percentuale di importazione di gas dall’estero. Il fabbisogno energetico nazionale oscilla tra i 70 e i 76 miliardi ma importarlo ha un prezzo di 70 centesimi a metro cubo, mentre, estrarlo dal nostro territorio ci costerebbe appena 5 centesimi.
Pertanto, aumentare nel giro di pochi anni lo sfruttamento di gas e petrolio nazionale farebbe diminuire al contempo la dipendenza dalle forniture estere e potrebbe migliorare decisamente la bilancia dei pagamenti. Inoltre, è assolutamente indispensabile riprendere la ricerca sul nucleare di quarta generazione, molto meno inquinante e più performante grazie alla tecnologia a fusione. Sono in corso studi internazionali molto avanzati e sarebbe delittuoso e imperdonabile farci trovare per l’ennesima volta impreparati.
Parallelamente il nuovo Governo, che si spera riceva un forte mandato popolare, dovrà necessariamente avviare una rinnovata politica industriale che tuteli il settore automobilistico, minacciato dai progetti “in toto elettrici” della Commissione europea, che manderebbero in rovina tutto il comparto produttivo della mobilità endotermica, le cui emissioni sono ormai molto ridotte, e consegnerebbero il nostro principale settore manifatturiero nelle mani della Cina, che produce motori elettrici con le sue centrali a carbone ad altissimo tasso di emissioni inquinanti.
Inoltre, emergerebbe l’enorme problematica di smaltimento delle batterie e il rischio concreto di blackout per sovraccarico elettrico causato dalla ricarica contemporanea di milioni di mezzi, presumibilmente in orario notturno. L’Italia, dunque, deve aumentare in tutti i comparti industriali, dal sementiero all’acciaio, dall’agroalimentare all’arredamento, dalla moda alla cantieristica navale ecc., la produzione nazionale, puntare su ricerca e sviluppo nella genetica e rilanciare i marchi sinonimi di eccellenza.
Una proposta in tal senso è stata avanzata da Fratelli d’Italia, che ha intenzione di creare un liceo del Made in Italy e un istituto accademico a tutela del genio imprenditoriale italico. Infine, va rilanciato un piano infrastrutturale di strade, autostrade, porti, ponti, ferrovie e aeroporti che possa favorire lo sviluppo economico e permettere di colmare il gap con gli altri Paesi occidentali. Per fare questo è assolutamente necessario che lo Stato ritorni proprietario della rete di telecomunicazioni presente sul territorio, settore decisivo nel futuro delle relazioni internazionali con l’avvento del sistema 5G e la crescita strategica del mercato dei metalli rari utili alla costruzione dei microchip.
In questi mesi, nel silenzio generale dei media mainstream, si sta consumando l’ennesima e forse definitiva svendita in mani straniere della compagnia aerea di bandiera. Per una Nazione, che potrebbe e dovrebbe essere la prima potenza mondiale nel settore turistico, è indispensabile mantenere e rilanciare l’ex Alitalia o Air Italy, com’è stata ribattezzata la nuova società.
Con una sinistra tradizione, che sta diventando una pessima abitudine, la scelta di nomi inglesi per pezzi di industria italiana, è spesso il preludio a una cessione a prezzo di saldo ai concorrenti stranieri.
E’ ora di invertire drasticamente la rotta interrotta con la liquidazione dell’IRI e con la funesta stagione delle privatizzazioni inaugurata da Romano Prodi e da un certo Mario Draghi sul panfilo Britannia nel nefasto 1992.
Ma ciò sarà possibile solo con un Governo che persegua finalmente l’interesse nazionale, che non sia ostaggio dei mercati finanziari e che non sia prono ai diktat interessati della Ue a trazione franco-tedesca.