Giovani innamorati, famiglie allegre, nonni con dei nipoti. Queste sono le vite spezzate dalla tragedia avvenuta domenica 23 maggio sulla funivia Stresa-Mottarone. Era la domenica delle riaperture, dell’uscita da un anno e mezzo di letargo, in cui le nostre esistenze hanno convissuto con un avvolgente senso di angoscia e di paura per il futuro.
Questo stesso futuro era alla base dell’amore tra i due giovani ragazzi varesotti morti nell’incidente, da poco andati a convivere. Immedesimarsi in quegli istanti è lancinante, fa pensare all’inafferrabilità della vita, al nostro tentativo di regolarla, indirizzarla e plasmarla che, spesso, tristemente, non serve a cambiarne l’esito. Potremmo stare ore a discorrere di tutto ciò, del nostro sbigottimento davanti alle tv ed ai cellulari quando le prime immagini e notizie sono giunte.
Ora però si apre un delicato tema che riguarda la giustizia che andrà fatta in nome di chi non c’è più ed in nome di chi, il piccolo Etan (unico sopravvissuto) sta lottando e avrà la sua esistenza comunque distrutta, sconvolta. La giustizia non deve essere vendetta. Non deve servire ad esporre in pubblica piazza, al ludibrio generale, i presunti colpevoli.
La giustizia si fa per onorare le vittime e non per crearne delle nuove. La procuratrice di Verbania ha aperto un’indagine, per ora senza indagati, con diverse ipotesi di reato, tra cui omicidio colposo plurimo, lesioni colpose gravissime e attentato alla sicurezza dei trasporti. Le indagini si presentano molto difficili perché sarà complesso ricostruire l’ordine degli eventi, la catena di ciò che doveva e non ha funzionato.
Le responsabilità di chi, ed in che misura, doveva vigilare, revisionare, sistemare, sostituire, chiudere, regolare e non l’ha fatto. Potendosi ammettere anche che tutto ciò sia avvenuto per un fatto irresistibile, il malfunzionamento di un freno auto-bloccante che sarebbe dovuto intervenire dopo la rottura della fune traente che, per l’appunto tira a monte la funivia.
Noi tutti chiediamo giustizia per le 14 vite spezzatesi insieme a quella fune. Lo facciamo per loro, in primis, e poi per tutti noi, per la nostra sicurezza. Perché dopo un anno e mezzo di letargo non dobbiamo aver timore di uscire dalle tane, di vivere, di abbracciare la nostra fidanzata e di portare in spalla nostro figlio. Perché tutto ciò non accada più chiediamo solo e soltanto iustitia, ossia ciò che è giusto, conforme al diritto.