A cura dell’Ammiraglio Giuseppe De Giorgi*
Il 22 maggio scorso è partita da Portsmouth la portaerei britannica HMS Queen Elizabeth (R08) alla guida del Carrier Strike Group (CSG), un Gruppo Navale di nove navi, per una missione di sette mesi e mezzo dall’Atlantico, al Mediterraneo Orientale, per poi giungere nell’Indo-Pacifico e più precisamente nel Mar Cinese Meridionale, vero obiettivo dell’operazione.
La Queen Elizabeth è una portaerei relativamente piccola (65.000 tonnellate rispetto alle 100.000 delle NPA americane), è meno potente rispetto alle Portaerei americane e quella francese (anch’essa nucleare) Charles De Gaulle, ma è il doppio, in termini di tonnellaggio, del Trieste e il triplo del Cavour. E’ comunque la più grande nave da guerra costruita in Gran Bretagna.
La Queen Elisabeth rimarrà nell’Indo-Pacifico per affermare con forza il valore della libertà di navigazione in acque internazionali, in collaborazione con la Marina Militare degli Stati Uniti, dell’Australia, della Korea del Sud e del Giappone. Il tutto in chiave di contenimento dell’espansionismo cinese sull’alto mare.
La missione della Queen Elisabeth vuole soprattutto dare un segnale forte in termini di politica estera: la Gran Bretagna intende contare a livello globale come Super Potenza nucleare, ben al di là delle timidezze della EU. In quest’ottica si inquadra il rilancio della Marina Britannica voluto fortemente dal primo ministro Boris Johnson, anche per rilanciare l’economia e l’occupazione interna, dopo decadi di “sea blindness” che avevano relegato il “senior service”, erede di Nelson, al ruolo di comprimario fra le altre Forze Armate, in quella che stava diventando una melassa interforze priva d’identità e di mordente. La Marina Reale si prende così nuovamente il centro della scena.
Prua verso l’Indo Pacifico quindi, rinnovando quei partenariati commerciali storici per l’UK, in una delle regioni tra le più dinamiche del mondo. Quel che vuole fare la Gran Bretagna è dimostrare di essere pronta non solo ad affiancare gli Stati Uniti, ma di essere interessata anche a occupare quegli spazi liberi, lasciati liberi dall’indifferenza di Trump e che gli americani potrebbero avere difficoltà o scarso interesse a rioccupare.
L’operazione della Queen Elisabeth rientra a pieno titolo in quel concetto di “Global Britain”, lanciato nel 2016 dall’allora primo ministro Theresa May, che aveva già 5 anni fa sottolineato come il Regno Unito dovesse, dopo la Brexit, tornare ad aprirsi al mondo per consolidarsi come una potenza globale in grado di inserirsi a pieno titolo negli scenari mondiali più rilevanti (primo tra tutti proprio quello dell’Asia-Pacifico).
La Cina non faticherà a vedere in questa missione il segno che gli alleati occidentali si stiano ricompattando in chiave anti-cinese ed infatti sta iniziando le contromisure per frammentare il fronte “occidentale” agendo su quelli che sono percepiti i partner politicamente più deboli in Europa soprattutto oltre che in Asia.
Non a caso Italia e Grecia sono state le prime Nazioni europee a esser oggetto di pressioni cinesi, grazie anche agli appoggi politici forti costruiti negli anni nelle file dei partiti che sostengono i rispettivi Governi. In Asia le Nazioni sotto pressione militare ed economica sono certamente Brunei, Malesia, Filippine e Vietnam.
La missione Anglo-Americana assume, quindi, anche il valore di un messaggio nei loro confronti per dare forza e coraggio alla volontà di contenere insieme le aspirazioni del Dragone. Un segnale che è rivolto indirettamente anche alle Nazioni Europee. E l’Italia? Può permettersi di defilarsi e di continuare nella sua tradizionale politica di Arlecchino servo di due padroni? Penso di no, anche se temo che la tentazione sia forte vista la vicinanza di parti della maggioranza di Governo con gli interessi cinesi. Sarebbe a mio avviso un errore.
La globalizzazione ha trasformato il Mondo. Gli Oceani sono il “sistema abilitante” primario dell’economia globale. Non possiamo restare indifferenti allo sforzo dei nostri alleati nella difesa della libertà di navigazione contro la territorializzazione dell’alto mare da parte delle grandi potenze rivierasche.
Consentire alla Cina di estendere la propria sovranità ben oltre le proprie acque territoriali sarebbe dannosissimo anche per la nostra economia. Battere bandiera nell’Indo-Pacifico, partecipando attivamente alle operazioni di UK, Francia e ovviamente in primis degli USA sarebbe nell’interesse nazionale dell’Italia, in misura molto superiore rispetto alla nostra partecipazione alla ventennale guerra in Afganistan e in Iraq, in cui abbiamo peraltro versato risorse ingentissime di uomini e mezzi.
* dal febbraio 2013 al giugno 2016 Capo di Stato Maggiore della Marina Militare