I colossi del web non sono immuni da flop. Agli annunci in pompa magna di nuovi servizi non sempre seguono i successi sperati: i casi emblematici di Google, Facebook e Amazon
di Alessandro Alongi
Non tutte le ciambelle riescono con il buco. E neanche tutti i “chip”. Non basta, infatti, chiamarsi Facebook, Apple o Microsoft per sfornare idee sempre all’avanguardia e conseguire vendite stratosferiche. Anche i giganti del web, infatti, inciampano. E quando lo fanno mandano in fumo investimenti milionari.
«La macchina pubblicitaria della Silicon Valley ha creato questo mito che i visionari riescono a creare facilmente il futuro, ma non sempre ciò accade». A dichiararlo l’imprenditore statunitense Astro Teller, chiamato da Google a dirigere i laboratori di ricerca del motore di ricerca più famoso del mondo, opificio di innovazione non immune dai fallimenti.
Ultima, ma solo in ordine cronologico, la decisione del gigante di Mountain View di mettere la parola fine al social network Google+ che, oltre a non aver mai catturato l’attenzione degli utenti (solo uno su dieci ha postato qualcosa negli ultimi anni), si è scoperto pure essere pericoloso sotto il profilo della privacy: è stata recentemente scoperta, infatti, una falla nel software alla base della piattaforma che ha messo a rischio i dati di 500 mila utenti (a cui va aggiunta una possibile sanzione per non aver comunicato in tempo il data breach). Da opportunità mancate a buco nero nei conti del gigante della Silicon Valley il passo è breve. In realtà l’azienda di Larry Page è recidiva sul tema. Il predecessore di Google+, Google Buzz, aveva provato a scalzare Facebook e Twitter dal cuore degli utenti, senza però particolare successo. Stessa fine per Reader, un aggregatore di notizie e aggiornamenti, chiuso formalmente nel 2013.
Non solo servizi virtuali – ma anche investimenti reali – che, per un motivo o un altro, non hanno prodotto i successi sperati da Big G. È il caso delle Vertical farms, ovvero vere e proprie aziende agricole estese, però, in verticale, con coltivazioni indoor sviluppate su un substrato inerte in vasi impilati uno sopra l’altro. Tale sistema di piantagioni intensive dovevano essere capaci, almeno nella mente di Google, di risolvere il problema della fame nel mondo. Peccato che riso e grano hanno dimostrato di non crescere in tal modo, decretando la fine del progetto, cestinato da Teller e dal suo team.
Avviene questo e altro all’interno di “X”, una struttura gestita da Google chiamata ad occuparsi di sviluppare importanti innovazioni tecnologiche. Il laboratorio si propone di inventare «soluzioni che sanno di fantascienza». Nato nel 2010, tra gli studi condotti lo sviluppo di un’automobile a guida automatica, lenti a contatto che monitorano gli occhi e sistemi di intelligenza artificiale neuronale per il riconoscimento visivo, e i cui successi saranno tutti da verificare prossimamente.
Nella lista dei fallimenti vanno menzionati anche i Google Glass, occhiali “smart” in grado di proiettare pagine web, controllare i social network o visualizzare lo stradario di Google Maps. Prezzo elevato, problemi tecnici e rischio privacy alla base dello stop al progetto: i gestori di bar e ristoranti hanno manifestato seri dubbi sulla riservatezza, vietando l’ingresso ai clienti con gli occhiali digitali per timore di registrazioni video non autorizzate a quanti sorseggiavano una birra o sgranocchiavano noccioline seduti, ignari, al bancone.
Ma non è solo Google a leccarsi le ferite. Anche Facebook ha registrato diversi stop a progetti apparentemente innovativi. Tra le creature di Mark Zuckeberg a finire nel dimenticatoio Facebook phone, un nuovo telefono firmato dal popolare social, in buona compagnia con il Fire phone di Amazon, stessa idea, medesimo insuccesso. Su questo segmento di mercato Samsung e Apple sembrano insuperabili, anche se l’azienda di Cupertino deve fare i conti con le vendite ampiamente al di sotto del suo iPhone 5c, telefono che doveva rivoluzionare l’user experience dei propri clienti. Realizzato interamente di plastica, colorato e costoso, il dispositivo non è mai entrato nelle grazie dei clienti. «Il fallimento è fondamentale, e renderlo accettabile è l’unico modo per convincere le persone a lavorare su progetti grandiosi, rischiosi e su idee audaci» ha ricordato Teller a chi faceva notare le tante promesse mancate. Sarà forse per questo, come l’esperienza insegna, che il fallimento peggiore è il non averci mai provato.