Le immagini delle gravi violenze avvenute all’interno del carcere Santa Maria Capua Vetere nell’aprile dello scorso anno riaccendono il dibattito sull’emergenza sociale all’interno del regime carcerario. Gli aspetti da analizzare sono molteplici ma, certamente, una delle prime domande che sorge è: perché c’è violenza nelle carceri? Si tratta di episodi che rientrano nell’indole individuale dei soggetti coinvolti o l’ambiente che si viene a creare nel contesto carcerario favorisce l’esplosione di focolai di rabbia e violenza incontrollata?
A dare delle risposte a questi quesiti ci provò nel 1971 lo psicologo Philip Zimbardo, attraverso il celebre (e discutibile) “Esperimento carcerario di Stanford” (Stanford Prison Experiment). L’intenzione era di scardinare l’ipotesi disposizionale secondo cui l’aggressività, sia dei galeotti che delle guardie, sarebbe riconducibile a caratteristiche intrinseche della personalità individuale, proponendo una visione della violenza come radicata non nei soggetti ma nell’ambiente sociopsicologico del carcere.
L’esperimento aveva coinvolto un gruppo di volontari che, a seguito di un approfondito screening, erano stati selezionati tra gli individui più stabili (sia mentalmente che fisicamente). A tali soggetti vennero casualmente assegnati il ruolo di guardie e prigionieri di una prigione simulata, all’interno dell’università di Standford. Le guardie vennero fornite di divisa, manganello, manette e fischietto mentre i prigionieri furono ammanettati, simulando un arresto, e imprigionati con tanto di uniforme e numero di matricola. Fu tutto così vero che l’esperienza si tramutò da simulazione a realtà. Lo stesso Zimbardo, che da ricercatore si ritrovò direttore di un carcere, dovette incredibilmente interrompere lo studio dopo appena sei giorni.
Dopo un paio di giorni dall’inizio dell’esperimento, infatti, le comunicazioni tra i detenuti erano limitate alle regole del carcere, rendendo la già difficile situazione ancora più opprimente. I prigionieri iniziarono ad assumere tratti di passività e depressione, mentre le guardie cominciarono ad adottare un climax di violenza fuori controllo: i carcerati vennero deindividualizzati, puniti fisicamente, obbligati a condotte degradanti e ad insultarsi a vicenda.
Per trasformare i soggetti più stabili individuati all’inizio dell’esperimento in guardie feroci e in prigionieri annichiliti fu sufficiente attribuire dei ruoli specifici identificanti, con una chiara differenza di potere, in un contesto psico-sociale in grado di fornire legittimità alla situazione. Questo processo è stato identificato con il termine “Effetto Lucifero”.
Ovviamente, l’esperimento è stato e tutt’ora è oggetto di discussioni sia etiche che metodologiche, accusato anche della non veridicità dei risultati a causa di sabotaggi nella procedura sperimentale (per esempio con l’agito di comportamenti volutamente modificati).
Una revisione di tale esperimento è stata proposta nel 2001 da uno studio di Alexander Haslam e Stephen Reicher, in collaborazione con la BBC. Le osservazioni fatte dai ricercatori portarono a conclusioni in parte differenti: le guardie del 2001 non riuscirono a sviluppare quell’identità data dal ruolo come fu per i partecipanti del ‘71, apparendo come individui ambivalenti nei confronti dei prigionieri che, dal canto loro, riuscirono a sviluppare una forte e coesa identità di gruppo.
Di fatto, di fronte allo stress, i carcerati rispondevano con un “noi” ben saldo e non più individualmente, contrastando l’identità sociale frammentata delle guardie e, di conseguenza, quella che veniva vissuta come una tirannia. Al fallimento di un costrutto identitario sociale corrisponde un fallimento di regole comuni, ad un’identità sociale salda e condivisa, l’Io di chi compone il gruppo si sostituisce al Noi. Si assiste, quindi, al fenomeno del groupthink (ovvero il “pensiero di gruppo”).
Zimbardo confessò, a tal proposito, che il venir meno della coesione del gruppo “prigionieri” segnò l’inizio della disgregazione sociale, portando i membri di questo gruppo a sentimenti di isolamento e alla svalutazione degli altri carcerati. Di riflesso, avvenne l’adesione al sistema di regole imposto dal gruppo “guardie”, al punto da considerare giuste le punizioni impartite e di reprimere qualsiasi segno di ribellione poiché visto come atto volto a causare ulteriori problemi tra i carcerati. Si arrivò, insomma, a preferire il sistema tirannico imposto dalle guardie piuttosto che fronteggiare una battaglia persa ancor prima di iniziare.