In questi giorni di crisi di Governo, consultazioni, scenari, retroscena veri o presunti ed esercizi con il pallottoliere per trovare improbabili maggioranze al Senato, è pressoché passato sotto silenzio il riferimento del presidente del Consiglio dimissionario Conte alla necessità di modifica della legge elettorale in senso proporzionale, soprattutto per cercare di infoltire il gruppo di cosiddetti “costruttori” centristi a suo supporto, in vista di un nuovo Esecutivo.
Il paradosso è che subito dopo, Conte ha dichiarato che per evitare di ritrovarsi in situazioni di instabilità permanente indotte dal proporzionale, servono anche riforme costituzionali nella direzione di una razionalizzazione del parlamentarismo attraverso il meccanismo della sfiducia costruttiva e il ridisegno dei collegi elettorali, ricalcando i modelli tedesco e spagnolo.
Ora, partendo dal presupposto che l’avvocato di Volturara Appula sia totus impoliticus, Conte ha dimostrato però di non essere nemmeno un fine costituzionalista se pensa e afferma che per risolvere la proverbiale debolezza dei governi serva il sistema proporzionale e un leggero maquillage a una democrazia parlamentare che tende inevitabilmente verso un assemblearismo senza limiti. La sua scelta risponde evidentemente alla necessità di impedire la formazione di maggioranze chiare dopo il voto e per favorire la nascita, con un’assoluta delega in bianco ai parlamentari, dei governi nel Palazzo.
Pertanto, un breve excursus storico potrà aiutarci a inquadrare meglio le ragioni e i rimedi strutturali al congenito malfunzionamento delle nostre istituzioni. In Italia fin dall’Assemblea Costituente fu subito chiaro agli esponenti più illuminati come Piero Calamandrei, che l’adozione di una forma di governo parlamentare avrebbe minato in nuce ogni capacità dei Governi di attuare con efficacia il proprio indirizzo politico, lasciandolo in balia del trasformismo dei partiti nelle due Camere.
La sua voce restò inascoltata poiché prevalse il timore contingente che uno dei due schieramenti potesse prevalere nettamente e assumere pieni poteri. Era chiaramente ancora vivo il ricordo di come il partito fascista si era trasformato da perno di un governo di colazione in un regime autoritario. Tuttavia, nessuno fece notare che le dittature emergono molto spesso da regimi parlamentari deboli o in crisi di sistema com’era lo Stato liberale nel primo dopoguerra. Ma si preferì adottare anche un meccanismo elettorale proporzionale che rende ancora più instabili le maggioranze parlamentari a supporto dei governi.
Nel 1953 De Gasperi si rese conto che per rendere i governi più stabili era necessaria una nuova legge elettorale ma il premio di maggioranza, previsto al raggiungimento del 50,01% non scattò per pochi decimi e tutto rimase come prima, dopo molti anni all’insegna del consociativismo tra DC e PCI, contrastato con alterne fortune dal PSI, fino al 1993.
Dopo il crollo della Prima Repubblica in seguito alla fine della Guerra Fredda, il referendum per cambiare la legge elettorale promosso da Mario Segni diede inizio all’era del maggioritario, che però fu “democristianamente” attenuato dal 25% della quota proporzionale presente nel Mattarellum, la nuova legge per il 75% maggioritaria, che prese il nome dall’attuale inquilino del Colle.
Nel 2005 il centrodestra modificò la legge inserendo le liste bloccate, poi mai più cancellate dai partiti, e il premio di maggioranza del 55% dei seggi per la coalizione vincente. Fino all’approvazione del Rosatellum, l’ultima legge elettorale ancora in vigore che prevede l’assegnazione dei 2/3 dei seggi con il sistema proporzionale un 1/3 con il maggioritario. Nel frattempo, la Corte Costituzionale allora presieduta da Marta Cartabia, ha bocciato la richiesta di referendum promossa dalla Lega per l’abolizione della quota proporzionale della legge, per eccesso “manipolativo”, per i maligni o i realisti un espediente giuridico per evitare una legge totalmente maggioritaria all’inglese, molto dannosa per chi, ad esempio il Partito Democratico, da quasi 8 anni è al governo senza aver mai conseguito la piena maggioranza dei voti.
Molti anni fa i radicali provarono a eliminare la quota proporzionale dal Mattarellum ma nonostante la vittoria schiacciante dei sì, il quorum del referendum non scattò. La storia ci insegna perciò che la legge elettorale, seppur con un impianto maggioritario e quindi tendente al bipolarismo, non può bastare per ottenere finalmente, parafrasando Bettino Craxi, un’autentica “democrazia governante” ma resta imprescindibile integrarla con una riforma costituzionale organica che adotti la forma di governo presidenziale o quantomeno del premierato, in cui i cittadini possono scegliere non solo i deputati, possibilmente con le preferenze, ma anche e soprattutto i governi, eleggendo direttamente il capo dell’esecutivo, che come nel caso francese può corrispondere anche con il ruolo di capo dello Stato.
Dopo 40 anni in cui il tema è sul tavolo, lo spettacolo delle transumanze parlamentari di questi giorni rendono quest’esigenza ancora più pressante, per evitare che alla caduta dei governi i parlamentari possano fare i disfare le maggioranze, senza tenere nel minimo conto l’indirizzo dato dai cittadini. Basterebbe rendere automatico come nelle regioni e nei comuni l’istituto dello scioglimento delle Camere in caso di sfiducia, evitabile solo nel caso di sostituzione del Primo Ministro nell’ambito della stessa maggioranza, ricalcando il modello Westminister.
Certamente poi il cambio della forma di governo nella direzione del presidenzialismo dovrebbe essere integrato dalla riforma del titolo V per risolvere i continui conflitti di competenze tra Stato e regioni, da una profonda riforma della giustizia e da un nuovo iter di formazione, applicazione ed esecuzione delle leggi.
Oggi, agli osservatori più attenti non sfuggirà che la crisi è non solo sistemica ma soprattutto di qualità della classe dirigente, a tutti i livelli, pertanto, bisogna ripartire dalla ricostituzione dei partiti, distrutti dal ciclone politico-giudiziario di Tangentopoli e mai più ricostruiti con solide fondamenta ideali, ma semmai sostituiti soltanto da liste personali.
Dopo la bocciatura di due referendum di revisioni costituzionali organiche del 2006 e del 2016, a cui è seguito solo il taglio del numero dei parlamentari, i tempi sono maturi e speriamo lo siano anche gli intendimenti e la coscienza civica degli italiani a cui gioverebbe, almeno per i cultori della materia, rileggere il profetico messaggio alle Camere del presidente Francesco Cossiga del 1991, rimasto purtroppo lettera morta per un’intera generazione.