Il vento è cambiato, anche stavolta. Il pomeriggio frenetico e la breve, piovosa, nottata romana consegna alla Capitale un equilibrio politico totalmente stravolto, fatto di molteplici “prime volte”.
L’affluenza, prima di tutto. Mai più di un romano su due era rimasto a casa da quando esiste l’elezione diretta del sindaco. Non vi propineremo la solita solfa della sfiducia, della lontananza e del presunto disgusto degli elettori verso la politica e le sue elucubrazioni, le liti e i massacri tra compagni dello stesso campo.
Di certo la contingenza pandemica (o post?) e l’elezione ottobrina – anche questa – mai vista sin d’ora, ha contribuito, e non poco, a questo crollo verticale dell’affluenza. Eppure, con Roma che brucia come non si vedeva dal 64 dopo Cristo e un degrado sempre più costante delle infrastrutture, della viabilità e della qualità di vita, ci si sarebbe aspettato un colpo di coda del cittadino medio che, mai come stavolta, più che arrabbiato sembra totalmente rassegnato. Tant’é.
Ugualmente mai era accaduto nella storia che un sindaco uscente non solo non venisse rieletto ma che fosse addirittura fuori dal ballottaggio. Il crollo, l’ennesimo crollo romano, che vede passare Virginia Raggi dal 67% al 19% e il M5S dal 35% ad un misero 11% scarso, non può essere un caso. Ai complotti, stavolta, non crede più nessuno. Se non altro, la sindaca, la storia l’ha davvero scritta. Una brutta storia triste.
A contendersi il Campidoglio ci sono ora due volti nuovi per i corridoi di Palazzo Senatorio. Entrambi non hanno sfondato, Michetti, addirittura, si attesta circa 6 punti sotto gli ultimi sondaggi, che lo vedevano sfiorare il 40%. Paga, il candidato di centrodestra, il crollo verticale della Lega che, su una doppia cifra, a Roma ladrona, ci sperava e nemmeno poco.
Dicono che alcuni dei voti del Carroccio siano stati convogliati verso Calenda – suo, il primo partito – così per impedire alla Meloni di aver salvato, in caso di successo di Michetti, la faccia a tutta la baracca. Difficile, ma non totalmente impossibile.
Infine, l’araba fenice, lo stesso Pd delle idi di marzo di Ignazio Marino, da trent’anni impegnato in una spartizione di potere locale senza eguale, si ricompatta, rinasce e torna competitivo dopo i disastri dell’era del commissariamento di Orfini e della lunga traversata del deserto seguita alla sconfitta, cinque anni fa, di Roberto Giachetti.
Sono lontani plebisciti di Rutelli, Veltroni e Marino e il ballottaggio sarà il più incerto e, mediaticamente più interessante, dai tempi di quello dello stesso Rutelli con Gianfranco Fini. L’era dell’improvvisazione è però definitivamente tramontata. Si torna alla politica dei professionisti.
Alla gente, la “ggente”, ha stufato. A Roma è morta la fantasia al potere. Stavolta definitivamente.