Ora che la fase di preparazione politica del nuovo governo è terminata non risulterà ozioso porre qualche domanda su ciò che verosimilmente ci riserva la sua azione. Tanto più considerando l’intensa attesa di rilancio economico che sembra circondare ogni piccola mossa dell’esecutivo. Dopo il crollo causato dalla pandemia e nell’imminenza della poderosa iniezione di prestiti e finanziamenti in arrivo dall’Europa (oltre 200 miliardi), è un sentimento più che comprensibile, per quanto, forse, leggermente prematuro.
A favorirlo è innanzitutto la reputazione internazionale di Mario Draghi. Non potrebbe esserci viatico migliore per placare i timori di un uso poco ambizioso, per non dire “elettorale”, di quella valanga di soldi che hanno accompagnato gli ultimi mesi del governo Conte. Ma un conto è presentarsi bene, un altro è fare il lavoro. Né potrà bastare il rimbalzo del reddito nazionale che seguirà certamente il debellamento del virus, quando sarà, perché più che dalla forza del rimbalzo, la nostra sorte sarà determinata dalla capacità di risolvere i problemi economici e sociali della situazione pre-Covid, che sono ancora tutti lì.
Per dare un contributo di chiarezza occorre partire da un piccolo ma fondamentale pro memoria: il debito pubblico italiano, al 135% prima della pandemia, viaggia ora oltre il 160%. Nonostante tale livello allarmante si parla già di una riforma dell’Irpef comprensiva di una sensibile riduzione del prelievo fiscale sui redditi medi. C’è margine economico per una politica del genere o si tratta solo di un sogno (frutto di un equivoco) da cui ci sveglieremo presto? E ammesso che sia tutto vero, dove si andranno a prendere i soldi?
In genere l’obiettivo della riduzione delle tasse in assenza di una forte crescita economica si accompagna a una riqualificazione della spesa pubblica fatta anche di tagli dolorosi. E’ quel che dobbiamo aspettarci all’uscita della pandemia? Sarebbe una scelta a dir poco controcorrente, non solo rispetto al governo Conte. Basti ricordare che nell’ultimo decennio tutti i responsabili della spending review (fra cui i brillanti economisti Carlo Cottarelli e Roberto Perotti, i cui libri hanno venduto parecchie migliaia di copie raccontando l’improbità del compito) sono stati accompagnati alla porta senza tanti complimenti dai presidenti del Consiglio che li avevano nominati in pompa magna appena qualche mese prima.
Il richiamo in servizio come consigliere di Francesco Giavazzi, già frustrato artefice di un progetto di taglio alle esenzioni fiscali prima commissionato e poi chiuso a chiave in un cassetto dal governo di Mario Monti sembra suggerire che Draghi sia armato di maggiore coraggio rispetto ai suoi predecessori. Né può essere senza significato la scelta come ministro della Pubblica amministrazione di Renato Brunetta, già protagonista di una rumorosa guerra ai ‘fannulloni’ che non gli ha certo attirato le simpatie del settore. Può darsi che nei pensieri del capo del governo ci sia l’obiettivo di ridurre a più miti consigli ‘mandarini’ grandi e piccoli della Pubblica amministrazione. Ma è come vedere due samurai che si preparano a un duello. E’ impossibile dire chi vincerà.
Altro tema su cui è inevitabile farsi qualche domanda è la spesa previdenziale. Qualcuno ricorderà che anche a causa dell’incapacità di innalzare l’età pensionabile cadde rovinosamente nel 2011 l’ultimo governo di Silvio Berlusconi. L’arduo compito fu lasciato a Mario Monti e a Elsa Fornero, che soprattutto per quello si sono attirati un’ostilità senza precedenti nella storia della Repubblica. La loro riforma ha resistito qualche anno, poi è stata in parte smantellata dal primo governo Conte con l’introduzione temporanea di ‘quota 100’.
Quella controriforma, sottoposta a una sperimentazione triennale che scade quest’anno, può essere resa permanente oppure è incompatibile con gli obiettivi economici e finanziari del governo? E nel caso, la Lega, che dello smantellamento della Fornero ha fatto per anni una bandiera, se ne starà zitta e buona?
Nella rapida rassegna degli scogli su cui rischia di andare a sbattere il governo, non può mancare il ritardo che l’Italia sta accumulando da un paio di decenni rispetto a tutti i paesi del mondo sviluppato in fatto di produttività del lavoro. Se non si risolve quello, non ci sono riforme che tengano. C’è margine per uno scambio virtuoso fra investimenti e sgravi fiscali da un lato e fra incrementi di efficienza e aumenti retributivi dall’altro? Sindacati e Confindustria daranno una mano o metteranno i bastoni tra le ruote?
Vale la pena di ricordare che fu il rifiuto della Cgil di Guglielmo Epifani a discutere di riforma della contrattazione, all’inizio degli anni Duemila, a favorire il declino della produttività italiana e che una decina d’anni dopo fu la rigidità della Confindustria di Emma Marcegaglia sullo stesso argomento a convincere Sergio Marchionne che la salvezza della Fiat doveva passare per la clamorosa fuoriuscita dall’associazione degli imprenditori.
Insomma, considerando la difficoltà dei problemi (e stiamo parlando solo di quelli più importanti su un piano strettamente economico) c’è da chiedersi se un esecutivo che ha davanti al massimo due anni ed è sostenuto ob torto collo dai partiti più rappresentati in Parlamento avrà la forza di portare a casa riforme vere su temi che accendono gli animi da tempo immemorabile. SuperMario andrà fino in fondo o stavolta si accontenterà di mettere qualche toppa qua e là, senza affrontare i nodi cruciali? E’ anzitutto a questa domanda che bisogna provare a rispondere per capire quale sarà il destino del governo e di tutti noi.