Caro direttore, al comune di Roma ho votato per Carlo Calenda. Mi è costato molto ma non avevo altra scelta per esprimere il mio dispiacere per una candidatura buttala lì all’ultimo momento, dopo aver avuto cinque anni di tempo.
Se è vero che il mio partito, Fdi, in questi anni ha dimostrato una certa apertura mentale e vicinanza alle più varie istante del territorio, sono certo che non se l’avrà a male per questa mia decisione. Una delle prime regole per formare una classe dirigente all’altezza – cosa per cui il presidente Giorgia Meloni è accusata spesso – è consentire il dissenso, utile alla crescita più che seguire pedissequamente un ordine gerarchico.
Ubbidire ciecamente al leader può essere funzionale e pragmatico per certi aspetti ma alla lunga i nodi vengono al pettine e ci si trova circondati di yes man abulici, la cui fedeltà non è poi così scontata.
La scelta di candidare Enrico Michetti è piovuta dall’alto senza un reale confronto, non dico con la base, ma almeno con i quadri del partito. Non guardarsi dentro o peggio penalizzare un avversario interno, che evidentemente esprime una linea diversa, è un atteggiamento che taglia le gambe all’entusiasmo di tutti quei militanti che hanno creduto in un riscatto della destra a Roma e a cui, evidentemente, poca interessano le dinamiche interne del partito.
Fratelli d’Italia non ha bisogno di soldati ma di teste pensanti che possano esprimersi a tutti i livelli. Certo la decisione finale spetta a chi ha la responsabilità di farlo (finale, non iniziale).
Per quel che mi riguarda ho fatto il militare a Civitavecchia, primo Battaglione Bersaglieri “La Marmora”, fuciliere assaltatore.
Con stima
Alberto, tesserato di Fdi