“Il processo di integrazione europea si è arrestato e l’opinione degli italiani dell’Ue è cambiata. La manovra? Normale che Bruxelles sia spaventata. Più che un superstato servirebbe oggi una federazione leggera. Occorre avviare un processo di integrazione in altri ambiti. Solo in questo modo, le sfide attuali – dalla gestione del fenomeno migratorio, al ruolo dell’Europa, con Trump da un lato, Putin dall’altro e un Mediterraneo messo a ferro e fuoco – potranno essere affrontate”. Dal sovranismo dilagante al calo di popolarità dell’Ue il colloquio di Emma Bonino con LabParlamento
L’Europa attraversa una crisi identitaria che mano a mano sta erodendo i propri pilastri politici fondamentali. Lei, europeista da sempre, come vede il futuro istituzionale dell’Ue?
Il progetto europeo attraversa una crisi politica per molti motivi, ma sono due le concause principali. Da un lato il processo di integrazione si è arrestato. Il progetto federalista dei padri fondatori è diventato man mano più lontano. Dall’altro, come causa ed effetto al contempo dell’arresto nell’avanzamento di una visione federalista, il consolidamento delle politiche intergovernative che – come nel caso italiano, altro non fanno che trovare nell’Europa il capro espiatorio a tutti i problemi di non facile soluzione – hanno minato le stesse fondamenta dell’Unione, che continua a resistere alla tempesta. L’Europa viene continuamente accusata di fare male ciò di cui si occupa – basti pensare all’azione determinante per assicurare la stabilità finanziaria ai Paesi più in difficoltà, come l’Italia – e di non fare quello di cui si dovrebbe occupare – che come nel caso della gestione dei flussi migratori non potrebbe fare anche se lo volesse visto che non ha le competenze che rimangono dei singoli Stati. Ma, il futuro dell’Unione ci riguarda tutti e deve concentrarsi sugli avanzamenti da fare. Il dato di orgoglio è quello di aver individuato con +Europa che lo scontro per le elezioni politiche in Italia e più in generale per la politica europea sarebbe stato tra Europa sì o no e tra apertura e chiusura. Credo che il modo migliore per onorare la memoria dei padri fondatori sia quello di impedire di picconare l’Europa che c’è. L’Europe communautaire è quella che funziona, seppure sia migliorabile. E di certo 28 staterelli da soli non andranno da nessuna parte. ecco perché le prossime elezioni europee saranno decisive: serve prendere coscienza che sono di fondamentale importanza, perché decideranno l’assetto politico e istituzionale dell’Unione per gli anni a venire.
Brexit ha aperto un precedente pericoloso nella storia dell’Europa unita. Crede che l’ondata eurocritica sia destinata ad arrestarsi – viste anche le difficoltà pratiche dell’uscita dall’UE – o si rischia di arrivare ad altri casi del genere?
Certamente la Brexit è preoccupante per l’incertezza insita in questa decisione, tanto più per il Regno Unito stesso. Tutte ‘le Brexit’ possibili e prospettabili sono negative per l’economia britannica, ma un’uscita dall’Unione europea senza accordo sarebbe disastrosa sia sul breve sia sul lungo termine – come del resto palesato dal Governo e dalla Banca d’Inghilterra – e questo è chiaro a tutti, eurocritici compresi. Il Regno Unito ha aperto una porta all’isolamento e penso che dobbiamo essere prudenti e vigilanti e aiutare la sua opinione pubblica a non scivolare nell’ossessione nazionalista. Va evidenziato che nel voto sulla Brexit i giovani hanno votato maggioritariamente contro, ma il loro tasso di partecipazione al voto è stato inferiore a quello della popolazione più anziana, più favorevole al leave, e questo ha pesato nel risultato finale. Per questo credo che si debba provare a coinvolgere tutti e contrastare in assoluto che un’ondata euroscettica britannica si riverberi sull’intero continente, già messo a dura prova dalle pulsioni nazionaliste, anche di casa nostra, per evitare emulazioni che avrebbero come unico effetto l’ulteriore isolazionismo di ciascuno.
L’Italia, sin da quando scelse di aderire alla CEE, ha rappresentato sempre uno dei baluardi dell’europeismo che, qui da noi, è sempre stato un valore politico trasversale e condiviso da praticamente tutto l’arco costituzionale. Oggi invece l’Italia si pone, agli occhi degli osservatori internazionali, come una delle più grosse minacce per l’Europa e per l’euro. Cosa è cambiato?
Negli anni – e soprattutto in questo ultimo periodo – è cambiato il clima politico. Proprio i motivi che dicevo prima, ossia l’alimentazione delle paure dell’opinione pubblica trovando come capro espiatorio l’Europa, hanno determinato il consolidamento di forze nazionaliste e sovraniste in Italia, ma anche in altri Stati membri. A differenza di quanto accaduto poco tempo fa con la Grecia, il rischio contagio dall’Italia credo sia più ridotto, almeno per quanto riguarda il potenziale di contrattazione del nostro governo, anche considerato che l’Italia è uno dei paesi fondatori e ha un peso ben maggiore della Grecia, anche dal punto di vista economico. Per questo, i continui attacchi all’Unione e la trattativa condotta in Commissione sulla manovra economica non fanno che preoccupare enormemente gli osservatori internazionali, che non possono che essere spaventati dalle politiche sovraniste che vengono portate avanti, nonostante la risoluzione di molte crisi richieda certamente una politica comune.
La sua storia radicale è costellata dalle battaglie per un’Europa forte, un’Europa nazione. Perché il processo “federale” si è arrestato alla sola politica economica e non si è proseguito con una vera, e seria, politica estera e di difesa comune?
Di fronte alla profondità di questa crisi di euroscetticismo occorre affrontare quel nodo che l’Europa si rifiuta di sciogliere dai primi anni ’50 – l’unione politica – a furia di agire sempre e solo sotto la pressione degli eventi. L’ostacolo all’unione politica dell’Europa è la riluttanza, che hanno tutti gli Stati membri, chi più chi meno, a perdere sovranità proprie a favore di un centro federale. Ma passare a un governo politico a livello federale, a Bruxelles, con un mandato e dei poteri definiti e circoscritti per legge, cui tutti cedano un pezzo della propria sovranità significherebbe per esempio che l’Unione potrebbe tassare e spendere cifre non enormi, ma significative. Sono ormai sessant’anni che l’Europa elude la soluzione del suo problema politico. Come proposto oramai da tempo nella mia azione politica radicale, la federazione europea, lungi dall’essere un superstato potrebbe assumere una forma di “Federazione leggera”, che assorbe e spende attorno al 5% del PIL europeo. Queste risorse sarebbero sostitutive e non aggiuntive rispetto alla spesa pubblica nazionale perché accompagnerebbero il trasferimento al centro federale di funzioni di governo oggi svolte dagli Stati membri. E tra questi, la difesa, la diplomazia (compresi gli aiuti allo sviluppo e quelli umanitari), il controllo delle frontiere e dell’immigrazione, la creazione delle grandi reti infrastrutturali europee, alcuni programmi di ricerca scientifica di grande respiro, sono dimensioni imprescindibili. Parimenti, sento dire “ce l’ha ordinato Bruxelles” come se fossimo ospiti, mentre siamo padri e madri di questo progetto. Perché a forza di andare avanti sulla strada dell’Europa delle patrie, si distruggono pure le patrie. Sono federalista per convinzione e non conosco altro sistema istituzionale al mondo in grado di tenere insieme in democrazia, Stato di diritto e diversità 500 milioni di persone di lingue e storie diverse, specie ora che la popolazione invecchia e il Mediterraneo s’infiamma.
Quante colpe hanno gli europeisti storici nel non aver compreso sul nascere una crisi che ormai ha fatto saltare tutti gli equilibri politici storici dell’Europa di Maastricht?
Il progetto europeo si è fossilizzato sulla moneta unica. Ci siamo fermati, aiutati dal fatto che l’euro, checché se ne dica, è stato un successo strepitoso, perfino in questo sistema imperfetto, al punto che ci si è dimenticati di andare avanti con le altre parti finché siamo sprofondati nella crisi. La moneta unica aveva una governance imperfetta dalla nascita, ma con la tempesta non ha retto più. Non bisogna dimenticare le conquiste del progetto d’integrazione già avviate: mercato unico, moneta unica, Schengen. Ma occorre avviare un processo di integrazione in altri ambiti. Solo in questo modo, le sfide attuali – dalla gestione del fenomeno migratorio, al ruolo dell’Europa, con Trump da un lato, Putin dall’altro e un Mediterraneo messo a ferro e fuoco – potranno essere affrontate. L’Europa che non funziona è quella delle patrie nazionali. C’è un Europa un po’ datata, ma non funziona laddove c’è un’agenda intergovernativa. La dimostrazione più chiara è che ai summit viene trovata una soluzione lessicale a un problema, salvo rimanere poi sulla carta. Le vocazioni nazionaliste dei capi di stato e di governo hanno frenato l’integrazione politica. Siamo alla metà del guado e tutti si esercitano a picconare questa Europa. Invece, è proprio da una visione federalista che bisogna ripartire, forse con un Europa a due velocità ma senza prefigurare un’Europe à la carte. Non abbiamo proprio più tempo da perdere. Dobbiamo diffondere un messaggio di speranza. A partire da quello che siamo riusciti a fare in sessant’anni dobbiamo andare avanti e migliorare il progetto europeo. Riprendiamo a parlare di sicurezza e di difesa comune, di un nuovo welfare per milioni di giovani e meno giovani in tutto il Continente, di investimenti europei nella scienza e nelle tecnologie più avanzate, della ripresa degli accordi commerciali con il resto del mondo (un interesse vitale per le nostre imprese esportatrici), di cosa e quanto possa fare l’Europa per sostenere e rafforzare il processo di democratizzazione dei Paesi vicini, scegliamo come contribuire alla tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini europei in quei Paesi dell’Ue dove pare messa a repentaglio la tenuta dello Stato di diritto.
Una domanda personale. Come va la salute?
La salute va meglio, per quanto possibile. Ma, continuo a fare politica, delegando ai medici la cura della mia salute. Proprio la passione per la politica radicale continua a farmi andare avanti nonostante tutto. E vorrei che le nuove generazioni comprendessero che il privilegio di vivere in una società pacificata lo abbiamo ereditato senza sforzi e che occorre restituire impegno, in un momento in cui, solo l’azione di tutti e ciascuno, potrà evitare una definitiva deriva.