Forse è uno solo il grande problema delle opposizioni: non avendo più una base ideologica robusta (e neppure un elettorato fedele, di “appartenenza”) si affidano ai singoli
di Luca Tentoni
La crisi delle “famiglie politiche” tradizionali in Italia e in molti paesi dell’UE non consegnerà la maggioranza del prossimo Europarlamento ai partiti sovranisti, però – com’è stato dimostrato da alcune proiezioni – rafforzerà decisamente il ruolo dei soggetti “anti sistema”. In Italia, l’opposizione (dalla quale escludiamo FdI, non solo per l’astensione nei confronti del governo Conte, ma per la consonanza che ha su molti temi con la Lega e con i movimenti della destra sovranista europea) è divisa e disorientata.
Forza Italia è costretta a subire l’offensiva di Salvini (che sta sottraendo al partito del Cavaliere molti voti e sembra in grado di intaccare, alla lunga, gli stessi gruppi parlamentari azzurri), ma non può rispondere competendo sullo stesso terreno. Nè, d’altro canto, Berlusconi può puntare tutto sul PPE e sulla “ex nemica” Merkel (la quale, in patria, non sta vivendo un momento facile) e neppure su quella che era una caratteristica forte dell’elettorato italiano, l’europeismo (che però nel centrodestra è sempre stato più flebile che nel centro e nel centrosinistra).
Altrove, le cose non vanno meglio: i modelli della sinistra potrebbero essere Corbyn e Sanchez, come a suo tempo lo fu Tsipras (senza contare Podemos o La France Insoumise, ancora meno avvicinabili alla realtà italiana), ma nessuno si adatta a perfezione alle caratteristiche del nostro “mercato elettorale”. Il Pd, dal canto suo, è tentato da Macron (ma anche il presidente francese è ben lontano dal “momento di grazia” e di popolarità dei primi mesi all’Eliseo, al di là dei problemi più recenti) e, come scelta alternativa, da socialismi come quello spagnolo o il laburismo inglese (che da noi sembra un ritorno agli anni ’70, mentre nel Regno Unito miete consensi soprattutto fra i giovani, come l'”eretico” Sanders negli Stati Uniti).
Il problema della sinistra è duplice: quello di Leu e delle forze limitrofe è uscire da una condizione di scarsa rilevanza numerica sul piano elettorale senza scegliere vie che possono rivelarsi chiuse o comunque infruttuose (come la concorrenza al M5S su alcuni temi: quello spazio è occupato dai Cinquestelle e accuratamente presidiato; semmai, è l’ala destra del Movimento ad essere sguarnita, ma quello è un affare di Salvini, che infatti ne approfitta); la difficoltà del Pd, invece, sembra quella di trovare un leader non solo per il partito, ma anche un personaggio europeo di riferimento al quale “agganciare” una proposta politica nazionale (però qui non siamo in Spagna e neppure in una Francia dove, peraltro, i socialisti sono quasi scomparsi e il movimento di Macron sembra più liberale e spostato sul centro-centrodestra che una “costola” del socialismo europeo). Forse è uno solo il grande problema delle opposizioni: non avendo più una base ideologica robusta (e neppure un elettorato fedele, di “appartenenza”) si affidano ai singoli. Però un leader, per quanto forte e per quanto sembri incarnare un progetto per il futuro, è una risorsa del partito, non il numero della roulette sul quale puntare ad ogni occasione tutta la posta in palio (l’esperienza di Renzi insegna). Che la fortuna del Pd sia declinata con quella di Renzi e le sorti di FI siano state determinate dall’affievolirsi (e dalla scomparsa, nel 2018) della leadership di Berlusconi nel centrodestra, è nell’ordine naturale delle cose. Non avere un piano e un progetto per il futuro, invece, è un pessimo segno.
Ecco perchè oggi la scena politica è dominata da due forze: una non esportabile (il M5S), dotata di un’enorme duttilità ideologica e capace di catturare consensi trasversali (anche se ultimamente, come nei primi tempi del “grillismo”, i voti provenienti dall’ex CDL e dalla destra tendono a diventare meno numerosi); l’altra, nazionale ma inquadrabile in una tendenza globale (la Lega) caratterizzata da un progetto identitario e da una politica ben precisa. Non esiste (anche se, probabilmente, la vedremo solo nel Parlamento europeo, per unire i partiti di destra) un'”internazionale sovranista”, perché – alla lunga, come si può constatare per esempio sull’immigrazione e sui dazi – la priorità assoluta all’interesse del proprio paese rende inevitabile il contrasto con gli altri (non è la prima volta che vediamo lottare fra loro sovranismi di diverse nazioni; per fortuna, però, finora non siamo arrivati a esiti come quelli novecenteschi). I nazionalismi, che pure si servono delle figure dei leader forti (Salvini, Le Pen, Orbàn, Putin, Trump) hanno però anche un messaggio sociale semplice e riconoscibile (nonché “virale”, per diffusione ed effetti sull’elettorato) basato su una “quasi ideologia”, cioè su alcune caratteristiche comuni che sono più legate all’identità e all’individuazione di uno o più nemici (alcuni comuni – gli immigrati, l’Islam, l’Unione europea, il liberalismo, la laicità – e altri variabili a seconda del paese: la Cina, la Germania, eccetera) oltre alla convinzione (la “retrotopia” descritta da Bauman) di poter tornare ad un passato nazionale idilliaco (ma mai realmente esistito). Se la battaglia che le forze tradizionali vogliono combattere si giocherà su un piano “ideologico” (o di valori) la partita vedrà l’iniziale schiacciante vantaggio delle forze “anti establishment”, che hanno una loro visione del mondo; sul piano della leadership, la gara appare un po’ più facile (il caso di Renzi, nel 2014, lo dimostra) ma né il Pd, né – tantomeno – FI hanno attualmente personalità in grado di spendere il proprio carisma per conquistare milioni di consensi; anche qui, dunque, le “filiali” italiane di PPE e PSE sono in grave ritardo. L’unico grande nemico delle forze oggi maggioritarie è la disillusione.
Pensare, tuttavia, che si sia ancora nell’epoca in cui si votava per disincanto e “per rivalsa” (dal 1994 al 2018 hanno sempre vinto le forze d’opposizione a quelle che avevano prevalso la volta precedente) è una pia illusione. Non siamo nella parabola del figliol prodigo: l’elettore che un tempo sceglieva uno dei partiti più forti (PD, FI-PDL) e dei poli, ma ne è uscito, per andare verso M5S prima e Lega poi, non tornerà a casa, semplicemente perché quest’ultima non è più la “vecchia chiesa” del tempo dei partiti ideologici, ma (dal 1994 a destra, almeno dal 2008 per la sinistra) un soggetto molto più “fluido”. Inoltre, la “protesta contro il partito di protesta” non porta affatto verso i gruppi tradizionali, ma sfocia nell’astensione. A meno che, nel frattempo, con una volatilità elettorale alta e una sempre più diffusa propensione del votante a superare ogni steccato, non emerga qualche forza ancora più radicale e antisistema che raccolga i frutti dell’albero scosso da qualcun altro.