Per pochi spiccioli è possibile commissionare un video fasullo o sintetizzare una voce dal nulla. Il fenomeno non si arresta, destando sempre maggiori preoccupazioni. Ma i big di Internet non rimangono a guardare e fondano una santa alleanza, pronta a combattere una crociata 2.0
Oggi in poche ore, con una manciata di dollari, è possibile richiedere (e ottenere) un fake-video personalizzato. Che lo si voglia utilizzare per una campagna politica denigratoria o per sollazzi privati non ha importanza. Chi vorrà mistificare la realtà (e sa smanettare sul web) potrebbe ottenere tutto ciò che vuole. In tempi rapidi e ad un costo risicato.
Il prezzo di un video fasullo si aggira, infatti, intorno ai 30 dollari. Tale, infatti, vale la dignità di una persona sul web, il suo buon nome, la propria credibilità. Nel dark web si può commissionare qualunque cosa, ma i soggetti privilegiati sono i deedfake pornografici, come già raccontato da LabParlamento di recente, al momento limitati ad attrici famose ma in un prossimo futuro (non tanto remoto) anche a vicine di casa e ignare compagne di scuola. Uno scenario da far tremare le vene ai polsi.
Grazie all’Intelligenza artificiale ormai si può sintetizzare di tutto, facendo apparire dal nulla immagini iperrealistiche, discorsi, musica e video. Non solo clip multimediali, dunque, ma anche audio da usare per gli scopi più disparati, e non sempre leciti. Ha fatto scalpore, nel settembre scorso, il caso inglese di un manager che, ricevuta una telefonata dal proprio amministratore delegato, ha disposto un bonifico da 220.000 euro su un conto corrente dalla voce stessa indicato. Peccato che la telefonata, in realtà, non sia mai esistita, essendo l’audio il frutto di una manipolazione ad arte della voce del boss ad opera di sofisticati algoritmi.
La realtà ha – purtroppo – superato di gran lunga la fantascienza. I prodotti dell’evoluzione tecnologica corrono, e non si arrestano nemmeno di fronte la dignità della persona, principio inviolabile che, anziché essere rispettato e tutelato, è costantemente messo in pericolo. La pervasività della tecnologia aiuta il mercimonio del corpo, trattando la persona come un mezzo, piuttosto che come un fine in sé.
Le contromosse non sono tardate ad arrivare. Google sta predisponendo un database contenente milioni di foto utili, secondo il gigante di Mountain View, a riconoscere in futuro possibili video manipolati. Anche Facebbok sta predisponendo le contromisure per combattere il fenomeno.
La creatura di Mark Zuckerberg ha messo al bando, dalla settimana scorsa, la pubblicazione dei deepfake sulle proprie pagine. Tale politica rientra nella più grande alleanza lanciata dall’azienda di Menlo Park e battezzata DeepFake Detection Challenge, un contest lanciato proprio da Facebook e da Microsoft in collaborazione con numerosi accademici provenienti da sette diverse università americane, tutti uniti con l’obiettivo di escogitare le più efficaci soluzioni per riconoscere e bloccare i deepfake.
La Deepfake Detection Challenge aiuterà (almeno nelle intenzioni) le persone di tutto il mondo a creare nuove tecnologie innovative che possano aiutare a rilevare media manipolati, mission tanto ambiziosa quanto difficile da realizzare.
La neonata “santa alleanza” sta facendo proseliti. Amazon è l’ultima, solo in ordine di tempo, ad essersi aggiunta a questa difficile impresa (portando in dote 1 milione di dollari). Presenti nel comitato anche il mondo del giornalismo, rappresentato dal New York Times. Anche l’Italia fa la sua parte, con l’Università Federico II impegnata nel comitato accademico accanto ai colleghi di Oxford, Berkeley, Albany e del MIT. E, in mezzo a tante fake news questa storia, per fortuna, non è affatto una bufala.