Il Direttore di LabParlamento a colloquio con l’economista e Presidente di I-Com. “Sull’IA manca ancora una strategia, servono più investimenti”
Quali sono le opportunità che l’intelligenza artificiale può offrire al sistema produttivo italiano? E i benefici che possono trarne soprattutto le piccole e medie imprese? E gli effetti sulla competitività del Paese? A queste e ad altre domande ha provato a rispondere l’economista e presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com) Stefano da Empoli, autore del libro dal titolo “Intelligenza artificiale: ultima chiamata. Il Sistema Italia alla prova del futuro” (Bocconi Editore). Secondo da Empoli, nonostante l’Italia presenti un basso livello di digitalizzazione, grazie ad alcune peculiari caratteristiche, il nostro sistema produttivo può sfruttare i vantaggi competitivi offerti dall’intelligenza artificiale. Un’occasione storica che tuttavia potrà essere colta soltanto chiamando a una nuova responsabilità le istituzioni – nazionali ed europee –, la società civile e la rappresentanza d’impresa. Fondamentali saranno in questo senso anche i cambiamenti necessari sul fronte dell’educazione e della formazione.
L’intelligenza artificiale è già arrivata. A che punto siamo in Italia?
Innanzitutto manca ancora una strategia. Siamo ancora a un livello preliminare in termini di applicazione, anche se la ricerca procede grazie a infrastrutture che, seconde me, hanno ottime potenzialità. Tuttavia la mancanza di un vero e proprio piano comporta notevoli diseconomicità sia nell’investimento delle risorse, soprattutto pubbliche, sia nella promozione di quella collaborazione tra pubblico e privato che, a mio avviso, è la condizione essenziale per favorire la diffusione e l’utilizzo dell’intelligenza artificiale in Italia.
Quale sarà l’impatto nel mondo del lavoro? Lei nel suo libro sostiene che non ci sarà affatto una sostituzione
Esattamente, credo piuttosto che si possa parlare di una sostituzione di funzioni: in pratica nel lavoro di ciascuno ci saranno specifiche mansioni che potranno essere rimpiazzate. Si tratta di creare nuove modalità di collaborazione tra le persone e tra le persone e le macchine. E’ chiaro che ci sono alcune funzioni in cui le macchine sono più brave e lo saranno sempre di più in futuro. Penso, ad esempio, alla capacità di calcolo. Ma ce ne sono altre in cui, a mio parere, gli umani sono insostituibili. Mi riferisco all’empatia, alla capacità di risolvere criticamente i problemi oppure a tutto ciò che riguarda le relazioni con altre persone.
Nel libro elenca alcune caratteristiche che potrebbero consentire alle imprese italiane di cogliere le opportunità legate all’intelligenza artificiale. Quali sono?
In particolare mi soffermo su cinque peculiarità del sistema produttivo italiano, con riferimento alle piccole e medie imprese che hanno una forte vocazione all’export. La prima è la flessibilità organizzativa, una caratteristica che deriva dalla tipica struttura familiare e dalla loro dimensione più ridotta, paradossalmente due fattori tradizionalmente associati a una minore competitività. Poi ci sono la personalizzazione del prodotto, ossia quell’attitudine culturale tipica delle imprese italiane che implica una forte attenzione verso il proprio cliente – consumatore o impresa – e l’orientamento prevalente Business to business (B2B), nel quale si concentreranno gran parte dei benefici attesi. Un altro elemento è sicuramente l’accesso alle tecnologie, enormemente più semplice e meno costoso rispetto ad altre epoche storiche e alle innovazioni del passato. E infine, l’ecosistema dell’innovazione digitale, che si basa sul concetto di co-opetition, un mix tra concorrenza e cooperazione tipico del Dna dei distretti industriali italiani.
In che modo, dunque, l’intelligenza artificiale può spingere la competitività del Paese?
Il cuore del libro si riferisce alla fase di adozione dell’intelligenza artificiale. Non si può separare in maniera meccanicistica chi la produce e chi la adotta. E questa distinzione ci sarà sempre meno nel tempo. Ma oggi i vantaggi di cui parlo nel libro si riferiscono soprattutto alla fase di adozione. Si tratta di imprese e settori prevalentemente tradizionali che, grazie all’intelligenza artificiale, potranno diventare più competitivi. Ciò non toglie che il ruolo della ricerca e della produzione è pure importantissimo, soprattutto in chiave europea.
Qual è il ruolo che l’Europa dovrebbe giocare nella competizione tecnologica internazionale tra Stati Uniti e Cina?
Credo che questo sia una priorità assoluta per l’Europa (e naturalmente per i Paesi che la compongono). Reputo del tutto velleitario che un singolo Stato europeo, per quanto grande, possa competere con i Paesi leader. Se dall’adozione, che dev’essere diffusa su tutto il territorio, passiamo alla produzione e alla ricerca, a mio avviso la massa critica diventa fondamentale. E nessun Paese, almeno per il momento, ne ha una che gli garantisca di stare al passo con Stati Uniti e Cina. Ci vogliono più investimenti da parte dell’Europa, ma devono essere coordinati. I segnali sono sicuramente più positivi rispetto al passato: si pensi alla nascita dei progetti di interesse comune e dei consorzi legati ad alcune tecnologie, che cercano di muoversi in questa direzione. Siamo agli inizi e abbiamo molta strada da recuperare.
Cosa ci manca a livello di sistema Paese affinché l’intelligenza artificiale possa davvero rappresentare una risorsa per l’Italia e per l’Europa?
Due cose fondamentali: investire di più e farlo in modo sufficientemente coordinato. L’idea del consorzio per la leadership tecnologica è quella vincente: qualsiasi cosa si faccia, deve essere all’interno di un piano coordinato e comune. Naturalmente verificando che i risultati intermedi raggiunti siano coerenti rispetto ai piani.
Ovviamente un aspetto cardine in tal senso è rappresentato dalla formazione e dall’istruzione. Come devono cambiare?
Occorre lavorare in una direzione verticale e in una orizzontale. Nel primo caso, si dovrebbe aumentare il numero di figure specializzate sull’intelligenza artificiale o, comunque, su tecnologie a essa connesse. Allo stesso tempo, tutti devono saper usare le macchine. Soprattutto saper interrogarle e interpretare i dati che abbiamo a disposizione grazie all’uso degli algoritmi. E questo vale per tutte le figure professionali destinate a evolvere nel futuro prossimo. Lo diceva prima di essere nominato ministro dell’Università e della Ricerca anche Gaetano Manfredi, e io sono del suo stesso avviso.
Il suo è un libro che parla soprattutto alle imprese e di imprese. Come si deve trasformare a questo riguardo il sistema della rappresentanza?
Credo davvero che il ruolo della rappresentanza sia fondamentale. Deve però adeguarsi ai tempi. E’ giusto rappresentare gli interessi dei propri associati a Roma e a Bruxelles, ma c’è bisogno di stare sui territori e organizzare presidi che non siano soltanto simbolici. Un esempio sono i Digital innovation hub, luoghi che offrono alle imprese assistenza in termini di formazione e consulenza. Sarebbero veri e propri strumenti di unione e coordinamento, in grado di aiutare le imprese a trovare le giuste competenze e, in pratica, a cambiare pelle. Che è una delle sfide principali.