Di Natale Forlani
Secondo una recente indagine dell’Istat, che anticipa di qualche mese quella ufficiale sull’andamento dei redditi delle famiglie residenti in Italia, nel corso del 2020 quelle in condizioni di povertà assoluta hanno raggiunto la cifra dei due mln con un coinvolgimento di 5,6 mln di persone. Si tratta del valore più elevato delle serie annuali storicamente disponibili (2007) con un brusco aumento di 335 mila nuclei familiari e di 1 milione di persone coinvolte rispetto al 2019.
Un incremento legato in particolare al significativo peggioramento delle condizioni: delle famiglie più numerose e con figli minori a carico, passato dal 9,2% al 11,6% sul totale delle famiglie di riferimento (dal 6,4% al 7,7% per la media generale); dei nuclei composti da solo stranieri ( dal 22% al 25,7%); della quota dei nuclei residenti nel Nord Italia ( +260ml).
I numeri comunicati dall’ Istat non sono stati oggetto di particolari reazioni sui mass media, probabilmente perché considerati scontati in un periodo di grave crisi economica. Ma nel frattempo lo Stato per sostenere il reddito delle persone ha mobilitato decine di miliardi nel corso dell’ ultimo anno e, per lo specifico degli interventi rivolti a contrastare la povertà assoluta, ha erogato circa 13 miliardi nell’ultimo biennio per i beneficiari del reddito di cittadinanza e del reddito di emergenza che ne ha allargato il perimetro dell’intervento nel recente anno.
Nel corso del 2020, l’Inps dichiara di aver accolto 1,650 milioni di domande per il reddito di cittadinanza (RdC), e 125 mila per la pensione di cittadinanza, per un numero complessivo di circa 3 milioni di beneficiari, e un’erogazione media di 543 euro mensili per ogni nucleo familiare. Per il reddito di emergenza (RdE), che ampliava i requisiti di reddito e patrimoniali per poter accedere ai benefici rispetto al RdC, sono state accolte poco meno di 300mila domande per un numero di circa 700mila beneficiari per un importo medio mensile di 560 euro.
Nel complesso dei due provvedimenti, quindi, oltre due milioni domande accolte per altrettanti nuclei familiari, e almeno 3,7 milioni di beneficiari complessivi. Il tutto per ottenere il risultato finale di una crescita di un milione di nuovi poveri. Numeri che dovrebbero stimolare una riflessione sull’efficacia degli strumenti messi in campo per contrastare i livelli di povertà assoluta, mentre, all’opposto, sono stati utilizzati in modo pretestuoso per aumentare di un ulteriore miliardo di euro i già cospicui finanziamenti destinati al RdC per il 2021 e di ulteriori 4 miliardi per il prosieguo degli anni.
Eppure non è difficile comprendere le ragioni del mancato raggiungimento dell’obiettivo di ridurre la povertà assoluta come stimata dall’istituto di statistica nazionale. L’Istat stima la condizione di povertà assoluta sulla base dei trend reali di spesa delle famiglie. Il RdC e quello di emergenza selezionano i beneficiari sulla base delle autocertificazioni sul reddito e sui patrimoni. Un criterio destinato a scontare gli effetti di un’evasione fiscale diffusa, in assenza dei controlli previsti con l’utilizzo delle banche dati delle amministrazioni, in quanto non ancora resi disponibili a distanza di 20 mesi dall’avvio entrata in vigore del provvedimento. Con il risultato di aver favorito gli abusi di massa, quasi del tutto impuniti come ampiamente documentato dalle analisi campione della guardia di finanza.
I criteri utilizzati per calcolare gli importi da erogare per il reddito di cittadinanza privilegiano i nuclei familiari monocomposti o poco numerosi (non a caso quasi il 40% dei beneficiari sono single), mentre l’Istat documenta che le famiglie più esposte sono quelle numerose. Per avere il reddito di cittadinanza è necessario possedere la residenza in Italia da almeno 10 anni, un requisito che ha più che dimezzato la partecipazione degli immigrati in condizione di povertà assoluta (che rappresentano il 25% dei nuclei composti da stranieri e il 28% del totale delle famiglie povere), escluso una parte significativa dei minori e alterato la distribuzione territoriale del provvedimento, dato che la concentrazione degli stranieri è largamente maggioritaria nelle regioni del nord Italia.
L’incidenza delle erogazioni del RdC nel Mezzogiorno (56%) risulta sovrastimata rispetto a quella rilevata dall’Istat per i nuclei familiari poveri residenti nella stessa area (38%). L’opposto di quanto avviene per le regioni del nord Italia (28% RdC e 47% Istat). È largamente diffusa la convinzione che l’obiettivo di reinserire al lavoro i beneficiari del RdC sia ampiamente fallito. Ma, nonostante il cambio del governo, rimane altrettanto diffusa la convinzione che l’attuale istituto del RdC rappresenti uno strumento utile per contrastare la povertà. Cioè che la politica dei sussidi, da erogare indistintamente a prescindere dalle cause della povertà, con criteri privi di senso e in assenza di un sistema adeguato di controlli, sia comunque una cosa seria.
Eppure basterebbe poco per riformare questo provvedimento. Ad esempio, riportando le politiche attive del lavoro nell’ ambito di regole vigenti per tutte le persone in cerca di lavoro e introducendo l’assegno unico per il sostegno dei minori a carico anche per le famiglie fiscalmente incapienti. Questa seconda misura è contenuta nel “familiari act”, già approvato da un ramo del Parlamento, in grado di dimezzare il numero dei beneficiari del RdC. Oppure prendendo atto che per alcune cause della povertà (la dipendenza da alcool, droghe, giochi d’azzardo e devianze varie) la politica dei sussidi si rivela controproducente e dovrebbe essere sostituita con servizi di supporto adeguati.
Quelle indicate sono politiche che vengono adottate in tutti i paesi della vecchia Europa per prevenire e contrastare i livelli di povertà assoluta. Ma in Italia c’è chi preferisce, per motivi elettorali o per manifesta incompetenza, bruciare le foreste per fare le uova al tegamino.