di Francesco Scolaro
Superata la metà di ottobre 2014, con alle porte la sessione di bilancio in Parlamento, è venuto il tempo di fare un rapido check up alle condizioni di salute delle principali formazioni politiche italiane.
Partiamo dal centrosinistra e dal PD, come ovvio che sia, dato che è il partito di maggioranza relativa in Parlamento, è quello che esprime il capo del Governo e buona parte dei Ministri ed è nettamente il primo partito in quanto a consenso.
La leadership di Renzi ha dimostrato come sia possibile per un partito che si voglia caratterizzare come post-ideologico allargare – anche a dismisura – la propria base elettorale, pur rimanendo nel campo del proprio elettorato di riferimento. I risultati delle europee di maggio scorso sono stati il primo caso concreto di boom elettorale dopo il cambio di leader e, in assenza di cataclismi interni alle alte sfere del PD, la percentuale del 40% ha buone probabilità di essere replicata in futuro (soprattutto in un futuro prossimo). Il rischio più grande è l’eccessiva personalizzazione del partito: il dopo-Renzi (non si sa quanto lontano nel tempo) è la vera incognita.
Restando nel centrosinistra, oltre al PD, il panorama offre davvero poco altro di significativo. L’unico partito che nel 2013 dimostrava effervescenza e vitalità era SEL di Nichi Vendola. Il magro risultato elettorale alle politiche di febbraio 2013 sommato al deludente risultato della lista Tsipras alle europee 2014, oltre a un’innegabile appannamento della figura carismatica di Vendola (dalla brutta vicenda Ilva in poi), non permettono di immaginare un futuro roseo per questa piccola formazione politica.
Dopo lo scandalo dei rimborsi elettorali e degli affitti “pazzi” di qualche anno fa, si sono perse le tracce della formazione politica fondata da Antonio Di Pietro. L’ultimo acuto dell’IDV risale al 2011, alla vittoria di De Magistris (altro ex magistrato) alle elezioni comunali di Napoli. Ma anche qui, più che il partito poté il singolo, che infatti si smarcò subito dall’ex magistrato del pool di Mani Pulite.
Al centro, l’unica formazione che esiste (o, più che altro, resiste) è l’UdC di Casini. La strana creatura di Monti (Scelta Civica), nata in occasione delle elezioni di febbraio 2013, è implosa in Parlamento, senza mai riuscire a stratificarsi nella società italiana, diventando con il tempo politicamente ininfluente. Se anche nel centrodestra ci fosse un partito forte come l’attuale PD, il centro correrebbe seriamente il rischio di scomparire, almeno momentaneamente.
Passando al centrodestra, qui il campo è diviso in parti diseguali tra Forza Italia di Berlusconi e Nuovo Centrodestra di Alfano. Entrambe le esperienze mostrano i loro limiti. FI ha un leader con una condanna definitiva per reati fiscali e al quale è garantita solo una minima “agilità” politica. La parabola di Berlusconi sembra avere preso una piega decisamente discendente. Il vero problema del centrodestra non è la mancanza di un bacino elettorale, quanto l’incapacità di trovare un leader che possa rappresentare una valida e credibile alternativa a Berlusconi. Forse è questo il vero lascito del ventennio berlusconiano: se il capo di un partito personale non lascia eredi legittimi (e legittimati) allora quel partito è destinato a morire. Vedremo cosa ne sarà di Forza Italia in futuro. Per ora c’è la sensazione di un vuoto di leadership non definitivo e non completo ma che è sicuramente difficile da colmare.
La formazione politica di Alfano&Co. finora ha raccolto meno consensi di quelli che erano nelle speranze dei suoi fondatori. L’avere governato con il PD non ha aiutato (e non aiuta) ad attirare e fidelizzare un’ampia base elettorale “moderata”. E se prima l’ombra di Letta non era tale da offuscare completamente il partito e il suo leader, il passaggio all’ombra di Renzi rischia di essere tanto lungo quanto fatale. La scorsa settimana è stato registrato il ritorno del Sen. D’Alì alla casa madre FI. Vedremo se sarà stato solo un caso isolato oppure se il problema interno a NCD rivelerà dimensioni e profondità tali da agevolare una lenta ma inesorabile marcia indietro verso FI.
All’estrema destra si potrebbe collocare la Lega Nord di Salvini. Negli ultimi anni, dopo gli scandali che hanno colpito il partito durante il periodo finale della reggenza del fondatore Bossi, la Lega ha veramente corso il pericolo di dissolversi. La cura Salvini (iniziata con il progressivo smarcamento dal partito di Berlusconi e che si può velocemente sintetizzare con gli slogan “no Euro” e “stop immigrazione”) sembra funzionare e, forse anche grazie al graduale svotamento del centrodestra, la Lega potrebbe tornare ad essere decisiva nelle regioni settentrionali.
Un capitolo a parte merita il MoVimento Cinque Stelle di Beppe Grillo. Difficilmente catalogabile secondo le note – e logore – categorie sin qui utilizzate, il M5S deve decidere cosa fare da grande, e prima ancora deve decidere se e come crescere. La perdita di consensi continua e non è sicuramente con una manifestazione di tre giorni che si risollevano le sorti di un movimento che è diventato partito senza volerlo essere. Il web, la rete, i comitati, la pseudo-democrazia diretta sin qui sperimentati possono essere stati utili nella fase embrionale, possono rivelarsi decisivi nelle occasioni elettorali (soprattutto a fini propagandistici), ma quando si arriva in Parlamento è essenziale essere incisivi e il M5S non lo è stato, se non in alcuni rarissimi casi.