di Giuseppe Iannaccone*
Togliamoci subito il pensiero e non parliamone più. Storniamo dal nome del neo-ministro dell’istruzione Patrizio Bianchi e soprattutto dal suo prestigioso curriculum il ruolo di presidente dei saggi nominati da Lucia Azzolina: quell’accolita più o meno aureolata che ha partorito le geniali trovate dei banchi a rotelle, delle rime buccali e degli ingressi scaglionati.
Concentriamoci invece sulla luna più che sul dito, provando a dare un senso a un sillogismo imperfetto ma gravido di significati e – si teme – di conseguenze: tra gli 8 ministri tecnici del governo Draghi vi sono un economista all’Economia, un dirigente d’azienda per dare all’Italia la tanto auspicata svolta digitale, una costituzionalista alla Giustizia e, appunto, un altro economista incaricato di curare la scuola ferita.
Preveniamo subito la facile obiezione: si tratta pur sempre di un professore. Certo non ha insegnato a scuola, forse non la conosce benissimo, però è un accademico e saprà dove mettere le mani. Si potrebbe rispondere che i precedenti non lasciano tranquilli, visti i titoli vantati da due dimenticabili precedenti, il prof. Profumo, quello che, ispirato dal senatore Monti, cercò di portare da 18 a 24 le ore di insegnamento frontale settimanali “perché i docenti devono lavorare di più”, e la prof.ssa Giannini, il braccio esecutivo della famigerata riforma renziana della Buona Scuola.
Ma il punto non è questo: l’ex rettore dell’ateneo di Ferrara e titolare della cattedra di Economia Applicata, esperto di produzione e innovazione industriale, dopo la nomina non ha perso tempo ad annunciare (o a minacciare, a seconda dei punti di vista) l’epocale responsabilità di costruire “una scuola nuova”. Che cosa si intenda con questa palingenetica dichiarazione di principio è lecito supporlo, dal momento che ogni proposito di una profonda riforma dei contenuti, degli obiettivi e dei caratteri dell’istruzione ha sottinteso finora una visione della scuola in chiave neo-liberista.
Non mancano, del resto, indizi chiarissimi: l’ultimo libro di Bianchi, Nello specchio della scuola (pubblicato nel 2020 da Il Mulino, la casa editrice bolognese presso cui si dà convegno la migliore intellighentsia liberal-progressista italiana, che gravita intorno alla figura di Romano Prodi), presenta come sottotitolo una precisa indicazione programmatica, “Quale sviluppo per l’Italia”. Il termine “sviluppo” è, in effetti, una sorta di mantra onnipresente, se è vero che l’autore non si fa scrupolo di presentarlo come la parola-chiave di tre dei sette capitoli che formano l’ossatura del volume: “La scuola, lo sviluppo, la solidarietà”, “Crescita e competenze per lo sviluppo”, “Formazione della persona e sviluppo”.
Non si tratta di sciatteria stilistica: la ripetizione ossessiva del concetto-passepartout è rivendicata sul piano ideologico. Ragionando nelle prime pagine sugli effetti della pandemia sul sistema scolastico e sulla formazione delle nuove generazioni, Bianchi sentenzia: “Non possiamo accontentarci di tornare alla situazione precedente, ma diviene ormai indifferibile avviare una vera fase costituente per la scuola, per aprire una nuova stagione in cui la scuola torni a essere, o forse meglio divenga, il motore di una crescita di un paese che da troppo tempo è bloccato”. Il birignao aziendalista – si capisce – non tollera l’idea di un’educazione priva di valore d’uso: come impone lo spirito dei tempi, il neo-ministro concepisce la scuola come “perno di tutta la società e dello sviluppo” (sono ancora sue parole, in un’intervista concessa al portale Business Insider).
Competenze, abilità, capitale umano: intorno a questo lessico tutt’altro che inoffensivo si raggruma, come è evidente, una certa idea della scuola appiattita sulle sue funzioni propedeutiche al mercato del lavoro, con buona pace di chi si ostina a ritenere la formazione critica e disinteressata degli studenti un obiettivo civile ancora doveroso e non una patetica fisima anacronistica. Nel frattempo, mentre attendiamo le prime ricadute concrete del nuovo (?) indirizzo strategico, vengono in mente le parole di Pier Paolo Pasolini, che in un celebre articolo sulla società dei consumi (poi raccolto negli Scritti corsari) distingueva tra “sviluppo” (il feticcio caro al ministro Bianchi) e “progresso”: mentre il progresso, in quanto “nozione ideale” è finalizzato al riscatto e al miglioramento di vita degli individui, lo “sviluppo” non è altro che un “fatto pragmatico ed economico”, legato agli interessi dei produttori e privo di ogni valore culturale. Applicata alla scuola, questa dicotomia atterrisce.
*docente e storico della letteratura