La superbia del “no alleanze” ha fatto emergere Renzi. Effetto Raggi e timore liste civiche
di S.D.C.
Dopo i focus su Pd, Mdp e centro-destra, stavolta è il turno del M5S. Come sta il Movimento a poco più di quattro anni dall’inatteso successo elettorale che lo ha posto all’attenzione nazionale e non solo?
A leggere le parole di Luigi Di Maio, giovedì alla Camera, contro il Governo Gentiloni (mai così dure, al limite dell’offesa) si potrebbe derivarne la consapevolezza di un momento decisivo nella prolungata fase di scontro con il Pd (riguardo il centro-destra la polemica è stata da sempre più tenue e comunque altalenante). Insomma, Grillo è in grado di dettare l’agenda e i tempi della politica del Paese?
In realtà, il M5S ha soltanto compreso che, a meno di un incidente di percorso, la fine della Legislatura ormai è rimandata al 2018. E per allora (esito primarie dem, possibili modifiche alla legge elettorale, nuove alleanze…) tutto potrà ancora cambiare . Dunque, saremmo di fronte all’ultimo tentativo di far saltare il tavolo. Adesso o mai più. Tuttavia, un rinvio della tornata elettorale non verrebbe male nemmeno ai grillini. Vediamo perché.
In primo luogo, il tempo a disposizione potrebbe rendere meno negativo l’effetto Raggi (al momento evidente). Anzi, potrebbe comportare un recupero di immagine.
Non diciamo nulla di nuovo se sottolineiamo che la vicenda del sindaco di Roma (mesi di polemiche, dimissioni, scontri, avvisi di garanzia, etc.) sembra dimostrare a sufficienza la tesi della scarsa capacità del Movimento di selezionare la propria classe dirigente. M5S potrebbe, allora, dedicarsi con maggior lena a prepararsi agli appuntamenti governativi che, molto probabilmente, si concretizzeranno in futuro. E questo, a sua volta, eviterebbe di essere costretti a rivolgersi alla classe dirigente esistente che approfitta della propria conoscenza della macchina politico-amministrativa soltanto per fini personali (leggi la vicenda Marra in Campidoglio).
Peraltro, il Movimento oggi amministra diversi Comuni dove dimostra di saper fare. È il caso dei Chiara Appendino a Torino. E del fuoriuscito Pizzarotti a Parma. Dunque, la vera questione sarebbe soltanto quella di appropriarsi di una cultura di governo oltre i consueti slogan sull’onestà che, in realtà, dovrebbe essere scontata e non certo un valore aggiunto.
La questione selezione classe dirigente fa il paio con quella, più generale, della definizione di una leadership interna in grado di pacificare il confronto a volte traumatico tra correnti e quella, non meno importante, della scelta delle proprie “truppe” parlamentari. Altra patata bollente cui mettere mano per tempo in vista della nuova Legislatura.
A oggi sono 37 (18 alla Camera e 19 al Senato) i parlamentari che dopo le politiche del 2013 hanno deciso che il Movimento 5 Stelle non faceva più per loro. Alcuni sono finiti in partiti che fanno parte della maggioranza di governo; altri in formazioni, a seconda delle vicende, vicine a essa; qualcuno perfino alle “estreme” (Sinistra Italiana, Fratelli d’Italia); la maggior parte al gruppo misto. Comunque una diaspora non da poco. Che fa il paio con la nascita, a livello territoriale, di forze civiche originate da spaccature in amministrazioni locali.
È un esodo, quest’ultimo, cominciato da almeno un paio d’anni, ma che adesso sembra trovare un approdo più stabile. A Genova, La Spezia, Livorno, Lucca, come in alcuni comuni della Lombardia e in parte dell’Emilia Romagna, centinaia di attivisti stanno lasciando i Cinque stelle per dare vita a gruppi che puntano a riprodurre assai da vicino l’”effetto Pizzarotti” a Parma. E che convergeranno presto in un coordinamento nazionale di liste civiche, che si dichiarano disposte a dialogare con il Campo Progressista di Giuliano Pisapia e con tutto quel variegato mondo che si muove a sinistra, sui territori. Una situazione da monitorare attentamente.
Infine, ma non certo ultimo, con qualche mese in più a disposizione M5S dovrebbe fare una seria analisi di coscienza, che andrebbe tutta a suo favore, su quello che oggi sembra essere stato un vero e proprio errore politico. Naturalmente al fine di evitarlo. Pena la “condanna” a predicare costantemente nel deserto.
Nel febbraio 2013 Grillo aveva il pallino in mano ed era il vero vincitore delle elezioni. Il premio di maggioranza agguantato dal Pd infatti lo costringeva a trovare un accordo dato che, al Senato, la maggioranza assoluta non c’era. Sappiamo com’è andato il tentativo intavolato in streaming da Pierluigi Bersani.
Il fallimento di Bersani a seguito del rifiuto da parte del Movimento di prendere in considerazione qualsiasi ipotesi di collaborazione, alla fine fu la fortuna di Matteo Renzi e della sua scalata prima nel Pd e poi al Governo. Di converso, un esecutivo M5S-Pd (Bersani) sarebbe stato fortemente condizionato proprio da Grillo nel programma e nelle politiche concrete. Perfino la scelta del presidente della Repubblica, forse, avrebbe preso un’altra direzione.
Con l’attuale situazione di sistema elettorale, M5S molto facilmente diventerà con maggiore evidenza il partito di maggioranza relativa ma rischia di trovarsi davanti allo stesso bivio. Che farà questa volta? Si ritirerà di nuovo nell’angolo della protesta di opposizione “dura e pura” (slogan di un tempo, non a caso della Lega Nord di Bossi), oppure sarà pronto al salto di qualità avendo acquisito e mettendo in pratica quella capacità di dialogo e di compromesso che, sola, è indice di maturazione politica e quindi di “intelligenza” governativa?