Sono trascorsi 30 anni dal più grave incidente della storia. Nucleare ancora decisivo
Chernobil, in Ucraina, il 26 aprile 1986; Fukuschima, in Giappone, l’11 marzo 2011. Messi di fronte alle conseguenze di due disastri nucleari (del primo incidente, il più grave della storia, ricorre proprio in questi giorni il trentennale) e travolti dall’impatto emotivo causato nell’opinione pubblica, era sembrato che i leader politici di tutto il mondo propendessero per una progressiva, ma definitiva, denuclearizzazione. Tuttavia, anche se in entrambi i casi – soprattutto in Occidente – gli investimenti in tecnologie hanno subìto una iniziale battuta d’arresto, successivamente sono gradualmente ripresi: ad oggi infatti sono centinaia i rettori operativi e decine quelli in costruzione.
Vero è che, a mente fredda, l’accadimento degli anni Ottanta si rivelò ben presto causato dalla vetustà del reattore assieme all’imperizia tecnica dei manovratori (il successivo invece fu addirittura l’effetto di uno tsunami che, comunque, dimostrò la scelta sconsiderata di quella localizzazione). Resta però il fatto che il ricorso all’energia nucleare, nonostante gli attacchi socio-ambientalisti ed i timori della politica di inimicarsi larghe schiere di elettori, ha resistito a grosse intemperie, confermandosi scelta strategica importante nella politica energetica di molti Paesi.
Vediamo qualche numero. L’ultimo rapporto congiunto Iea – Nea (International Energy Agency – Nuclear Energy Agency) per il 2015 informa che, al momento, sono in attività 438 reattori mentre 72 sono in costruzione, il numero più elevato registrato da un quarto di secolo. L’energia nucleare garantisce l’11 per cento della produzione mondiale di elettricità, una quota che in Europa sale al 27 per cento. Europa, che possiede il 42 per cento dei reattori funzionanti al mondo, destinata dunque a mantenere il primato nonostante l’incalzare dell’Asia (con particolare riguardo alla Cina), con 47 reattori in costruzione contro i 17 del vecchio continente e gli otto delle Americhe.
Ecco allora che non può essere un caso che, per la prima volta dopo quasi vent’anni , negli Stati Uniti risulti imminente l’entrata in attività di nuovi reattori. Tre i fattori “pro”, che poi non valgono solo per gli Usa: la constatazione che i mutamenti climatici (con estremizzazioni specie invernali) premiano la continuità di questa produzione (a differenza delle altre fonti, non ha accusato problemi di sorta); subito dopo, la crescente importanza degli accordi di decarbonizzazione (in primis del sistema elettrico) ai quali, anche Oltreoceano, si è compreso – alla fine – di dover far fronte; infine, l’economicità: è vero che gli investimenti iniziali sono elevati, ma dopo vent’anni i costi di gestione diventano bassi rispetto alle fonti concorrenti e, del resto, le aspettative di vita di un reattore vanno ormai ben oltre i sessant’anni.
Qualunque sia l’esito della corsa alla Casa Bianca, assai difficilmente repubblicani o democratici saranno in grado di rinunciare all’atomo. Anzi, tutto lascia prevedere che gli Usa tenderanno a incrementare una capacità che assicura il 19 per cento dell’energia elettrica, mantenendo l’attuale elevato standard produttivo che registra l’apporto di un centinaio di reattori. E ottenendo, in tal modo, un più equilibrato rapporto con il ricorso alle energie rinnovabili e la sostituzione del petrolio attraverso l’utilizzo del gas di scisto la cui “età dell’oro” prima o poi è destinata, per forza di cose, ad esaurirsi.
In realtà, le cronache più recenti ci raccontano un’altra storia, almeno per due Paesi europei che proprio sul nucleare, soprattutto il secondo, hanno puntato molto a fini di riduzione del costo dell’energia e conseguente competitività economica: Germania e Francia. Ma fino a un certo punto.
L’abbandono e la cosiddetta “transizione energetica” decise dalla cancelliera tedesca Angela Merkel dopo la tragedia di Fukushima, hanno portato finora alla chiusura di alcune centrali ma le altre saranno in funzione perlomeno fino al 2021. Inoltre, se non cambieranno le regole sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica, sarà complicato rispettarle senza nucleare in un Paese che già oggi produce con il carbone oltre la metà dell’elettricità.
Quanto alla Francia, è un fatto che i conti del “monopolista” nazionale, Edf, sono zavorrati da tempo dal prolungarsi dei tempi di realizzazione della centrale di terza generazione a Flamanville e dall’agenda di dismissioni, inevitabile per un parco produttivo affatto giovane. Però anche in questo caso esigenze sociali da una parte e ambientali dall’altra non saranno facilmente comprimibili.
Qualcuno potrebbe chiedersi se mai l’Italia sarà in grado, a moratoria conclusa, di riaprire questo capitolo. A nostro parere, le possibilità sono minime per non dire assenti. Il treno ormai è passato. Semmai, il problema è quello, urgentissimo, della sistemazione dei rifiuti radioattivi con la nascita del deposito nazionale. Il ritardo è già preoccupante anche in questo caso. E le ripetute scadenze elettorali in vista certo non aiutano in un Paese che vive di emotività e scarsa, a volte perfino fuorviante o addirittura errata, informazione.
Non ultimo, ci sarebbe da parlare seriamente di politica energetica. Ne abbiamo una? Non sembra proprio. Anche se finora l’italico “stellone”, strutturalmente e congiunturalmente, ci ha aiutato non poco a farne a meno.